Intervista ad Enrico Morteo, architetto e storico del design
Spesso si parla di comunicazione quando non si ha nulla da dire:
i fatti veri esistono e di solito sono comunicati male; esiste poi un alone di desideri che invece viene comunicato benissimo. Questo è un po' il paradosso in cui che ci si trova oggi.
Nelle interviste accade di incontrare principalmente due "fenotipi" di persone.
Al primo tipo appartengono individui tutta crosta e poco o nulla sotto la superficie, che urlano con forza ed arroganza, ma in realtà fanno ben poco. Generalmente sono di corsa, pieni di sé, ed hanno scarso rispetto per il lavoro degli altri e altrettanto scarsa disponibilità.
Vi sono, poi, persone molto preparate che appaiono e compaiono poco, ma fanno ed hanno fatto molto. Generalmente hanno una squisita gentilezza, una grande disponibilità ed è un piacere dialogare con loro.Enrico Morteo, architetto che da anni scrive e insegna storia del design, è sicuramente di questa seconda categoria. E credo sia particolarmente significativo averlo intervistato proprio sul tema della comunicazione, in tal senso cruciale.
Una sua sintetica biografia ci informa che è stato autore di programmi radiofonici e televisivi, ha collaborato con numerose riviste e case editrici, fra cui Domus, Abitare, Modo, Interni. E' stato curatore di diverse collane editoriali e ha promosso la pubblicazione dei primi volumi dedicati al lavoro di Alberto Meda, Denis Santachiara, Makio Hasuike, Nanda Vigo, Stefano Marzano. Ha fatto parte, l'anno scorso, del comitato scientifico di Torino 2008 Word Design Capital; ha curato inoltre alcune mostre, fra cui "Olivetti: una bella società" e "Roberto Sambonet".
E' autore del volume Grande Atlante del Design per i titoli Electa.
A lui la parola.
Che cos'è "la comunicazione" oggi? Pare ci sia parecchia confusione in materia, riusciresti a darne con poche parole una definizione corretta e aggiornata?
No, credo che una definizione sia difficile. Anche perché la comunicazione è oggi una sorta di alibi. Molto spesso si parla di comunicazione quando non si ha nulla da dire e si usa la comunicazione, o quello che comunemente viene chiamato così, per giustificare o per riempire un vuoto. Io credo che sia molto più importante pensare a cosa si fa e, solo in un secondo momento, pensare a come lo si dice, perché questo atteggiamento mette le cose in un certo ordine. Anche se non vorrei mai svilire il senso della comunicazione: nel momento in cui si ha un contenuto, per quanto piccolo, la comunicazione serve ad amplificarlo verso gli altri, ma anche verso se stessi. Nel momento in cui si racconta quello che si ha in mente, quello che si sta facendo o si e fatto, forse se ne capiscono degli sviluppi possibili. E la comunicazione può avere questo scopo a patto che non sia mai soltanto marketing elementare, ma che sia invece una comunicazione "alta", ovvero che alza l'asticella della sfida rispetto a ciò che si sta facendo ed ai contenuti con i quali si ha a che fare.
Detesto la parola "evento", che sembra il sostituto di un fatto. Penso che sia necessario in tal senso "ritararci": i fatti veri esistono e di solito sono comunicati male; esiste poi una sorta di nebbia, nuvola, aura, alone dei desideri che invece viene comunicata benissimo. Questo è un po' il paradosso in cui mi pare che ci si trovi oggi.
Hai usato la parola marketing. Sei d'accordo sul fatto che negli ultimi 30 anni la comunicazione al pubblico sia stata dominata dalla filosofia del marketing, ovvero dall'idea del vendere un prodotto? In caso affermativo, quali limiti e quali opportunità costituisce questo atteggiamento? Pensi sia utile e produttivo applicare questo schema anche in campo ambientale?
Rispondendo con un'altra parola inglese il "marketing" è un "tool", ovvero uno strumento, e come tale non è buono o cattivo in sé. E' stato spesso forzato tramite l'idea di prodotto e consumo: due concetti che, soprattutto parlando di ambiente, bisognerebbe un po' depotenziare. Se consumo l'ambiente, logoro ciò che vorrei proteggere e su cui vorrei lavorare, pare ovvio quindi che sarebbe meglio consumarlo il meno possibile.
I vantaggi del marketing sono quelli di mettere in vista qualcosa. Lo svantaggio è che una volta che questo qualcosa è in vista può essere utilizzato più dei limiti che si desidererebbe.
Lungi da me parlare male del marketing tout-court: ne esistono casi straordinari e molto positivi. A due passi da Torino Olivetti per anni ha messo in moto un processo virtuoso affidando il suo marketing a poeti, pittori, grandi grafici. Lo stesso penso si possa fare con la natura: Carlin Petrini che si occupa di una natura un po' particolare, quella che mettiamo sul nostro piatto, ha saputo fare dell'eccellente comunicazione, senza che questo abbia portato ad una rinuncia alla qualità.
In sostanza, bisogna avere qualcosa di cui parlare, e non parlarne solo per creare un prodotto da consumare.
Talvolta sembra che persuasione, seduzione, falsità e distorsione della realtà abbiano maggior "efficacia comunicativa" di onestà, chiarezza, verità. Anche se forse i tempi stanno cambiando. Quale la sua opinione a riguardo? E qual è la sua strategia per comunicare? A quali aspetti è più attento?
Guy Debord ha scritto molti anni fa un celebre testo, "La società dello spettacolo": noi oggi siamo dentro quello scenario. Gli effetti spettacolari sono ovunque intorno a noi: viviamo in un mondo dell'eccesso. Parlando di ambiente, nuovamente, questo pare inadeguato: la natura è sensibile, è delicata, ma, allo stesso tempo, forte, perché capace di reagire. Il problema è semplice: questa reazione può essere una degenerazione che non piace a nessuno.
E' vero che oggi si possono ottenere eccellenti risultati "comunicativi" costruiti su poco, se non su nulla, solo con un sapiente utilizzo delle scenografie e di immagini forti. Io tendo a non lavorare così. Penso che la comunicazione più interessante non sia necessariamente la verità, anche perché la verità è qualcosa che a seconda del punto di vista cambia. Però cerco di dare a chi mi deve leggere strumenti per riflettere anche al di là del "contingente specifico" di cui ci si sta occupando. Ovvero mettere dei contenuti in più. L'attenzione è quindi non tanto rivolta a fare più luminose le tre cose che ho da dire, ma a metterne in gioco quattro o cinque
. senza togliere visibilità al contenuto principale, ma seminando nella mente dello spettatore dei "tarli", dei suggerimenti per andare al di là. L'ambiente non è solo una passeggiata, un percorso, un'area protetta, è sempre qualcosa di diverso: una riserva di possibilità, spazio, biodiversità, silenzio
Non c'è solo il «venite in Valle d'Aosta che abbiamo natura e belle passeggiate». C'è qualcos'altro, sempre. Per cui la mia linea è quella di farti pensare, farti imparare, non per forza in modo pedante, anche ridendo o giocando, ma con intelligenza.
Da esterno come vedi i parchi? Che immagine forniscono al grande pubblico? Come comunicano? E che spazio occupano nella comunicazione di altri?
Di parchi si parla abbastanza. Farei un parallelo con la situazione politica italiana: i parchi si comunicano con il linguaggio della sinistra, che è un linguaggio vecchio e non riesce a parlare più a nessuno. Prevale ancora la dimensione del vincolo, del divieto, più che quella di un surplus che un parco può dare.
Nei confronti di questi luoghi ho una mia percezione: sono uno che pensa che meno ci si entra nei parchi e meglio è. Il solo fatto che esistano è secondo me la vera grande ricchezza. Ma questa è una posizione di "vetero sinistra" che, come dicevamo prima, non è molto comunicativa. Credo sarebbe importante spostare un po' l'accento sulle qualità che i parchi stanno preservando e mettendo a disposizione della società. Possiamo tutti avere qualcosa grazie a loro.
Purtroppo devo anche aggiungere che oggi, questo qualcosa è di scarso interesse: in un mondo che si muove ad alta velocità, quello dei parchi è un mondo lento, "qualitativamente fermo". Intendo dire che la sua qualità è l'essere fermo, e non che non stia evolvendo qualità.
E' un bel dilemma, non è facile "comunicare i parchi": comunque punterei su ciò che sono come ricchezza e non su quello che sono come limite.
Si parla sempre di sostenibilità. Anche se è un termine ormai biascicato e svuotato di significato sembra avere ancora un po' di energia da trasmettere. Mi pare che anche architettura e design lo stiano adottando sempre di più. Cosa ne pensi?
Sempre da "esterno", io ho come l'impressione che stia avvenendo una trasformazione nella nostra realtà. Fino ad un po' di anni fa i parchi italiani ed europei non erano che dei "vuoti", dentro cui non succedeva quasi nulla, dove si lasciava libertà di vivere alle specie e che erano almeno nell'immaginario non abitati, ma "guardati" da quella figura mitica che cade sotto il nome di "guardiaparco". Questo per due ragioni: perché sostanzialmente erano davvero pochi quelli a cui importava di parchi, e dall'altro perché avevano singolarmente un'estensione relativa non così rilevante.
In America invece i parchi sono da sempre molto grandi per estensione, "vissuti" con la presenza di ranger più attivi e segnati da percorsi che proiettano all'interno del parco, aree di mondo "normale", "attivo", fatto di automobili, gente, strade, alberghi, ristoranti, etc
Questo non esisteva da noi fino a poco tempo fa.
Ed è giusto invece che qualcosa di simile accada anche in un Europa che ha sempre più bisogno di natura e di riserve di possibilità.
Personalmente non amo la natura addomesticata, tenuta al di là dello steccato. Per me la natura o è selvaggia o è antropizzata. La formula anglosassone, che è poi quella americana (ma non solo), risulta invece proprio una via di mezzo: mantenere alcune aree selvagge che io spettatore-visitatore guardo come fossi al cinema, potendole in qualche modo attraversare.
La sostenibilità in questo campo è pensare ad "occupazioni" e "transiti" che siano compatibili con la salvaguardia della natura: esistono iniziative che possono essere realizzate senza deturpare l'ambiente. Se uno, per esempio si inventa delle stazioni di mongolfiere per scavalcare le Alpi sulle direttrici di alcuni dei grandi parchi alpini: ecco che un parco diventa una meraviglia visibile da molti. Forse sono cose che già si fanno, io non sono ben informato, perché non è il mio campo. Sono sicuro comunque che esistano modi per rendere fruibile (un vocabolo che non amo particolarmente) un parco con l'attenzione (termine che preferisco a sostenibilità) che questo merita e richiede. Sostenibilità è poi una parola che si usa, e si deve usare, per recuperare fondi. In una commissione di bilancio di un qualunque ente, dal momento che "sostenibilità" è ormai un sinonimo di concetti molto più grandi e complicati che queste persone raramente hanno voglia di capire, si usa questo termine come una sorta di scorciatoia: in ciò non c'è niente di male. Ma poiché la sostenibilità è un concetto relativo (oggi non faccio entrare le macchine perché inquinano, domani saranno elettriche e "sostenibili" e quindi le farò entrare) e non un punto fermo, penso la si debba trattare come uno "slogan": con qualcuno lo si può usare, ma con altri e soprattutto con se stessi, nel momento in cui si pensa, si guarda e si entra in un parco, è meglio forse utilizzare altre categorie.
Tornando al design, hai esempi o situazioni di riferimento in cui quest'ultimo sia stato utilizzato come veicolo comunicativo per i concetti legati alla natura e ai parchi?
Così specificatamente, direi di no. Mi viene in mente un'esperienza molto limitata di più di vent'anni fa, realizzata al Parco del Ticino Lombardo, la cui segnaletica e comunicazione era stata curata da Italo Lupi, un bravo grafico che non è più un ragazzino, e che aveva dato loro un'immagine meno polverosa.
Tuttavia non mancano i grandi esempi di comunicazione ambientale. Penso a quella di straordinario livello proposta da Al Gore, non certo mirata a i parchi, ma più ampiamente alla natura. Ritengo che oggi sia quello il modello al quale guardare: se si racconta qualcosa, come dicevo, mettere qualche contenuto in più e non in meno. Mi pare che anche parlando di un parco sarebbe bene pensare su una scala maggiore.
In Francia, troviamo altri esempi positivi, quelli dei parchi archeologici: un misto di natura e "arte-fatto", anche se si tratta di opere dell'uomo di molto tempo fa. Alcuni loro allestimenti che intersecano architettura e design sono stati fatti abbastanza e anche molto bene e comunicano con efficacia.
Gli americani, poi, sono tanto bravi quanto diversi da noi, anche per situazione territoriale, per cui non li prenderei come termini di confronto o modello.
Direi che, in generale, quello dei parchi e della natura è un terreno su cui il design dovrebbe cimentarsi. L'Europa del nord in parte già lo sta facendo, ma è molto avvantaggiata rispetto a noi semplicemente perché ha un livello di civiltà maggiore rispetto a ciò che è pubblico, in termini di cura e di valorizzazione.
In ogni caso, sollecitare giovani designer su questi temi potrebbe far nascere qualcosa di molto interessante.
Mi viene in mente una componente spesso sottovalutata: l'arredo esterno, un elemento passivo di comunicazione che però dice un sacco di cose. Vedere paletti urbani o neobarocchi in un parco fa un po' strano
il design può aiutare a rendere più chiaro il messaggio dell'arredo e farlo diventare un punto di partenza per comunicare?
In questo caso apro una riserva, penso che oggi ci sia un eccesso di "disegno". In un bar sembra che uno debba vivere un'esperienza mistica, se vai in un albergo sembra che si debba godere una vacanza della mente, se vai in un negozio di scarpe il cliente dovrebbe trovarsi dentro un amplificatore delle sue percezioni. Non credo che questo linguaggio di "over-design" sia necessario. In un parco forse bisogna scegliere livelli di comunicazione più silenti: so che è un paradosso. Ma ritengo sia preferibile un registro più "discreto".
Del resto il silenzio è forse il luogo, lo spazio perché una comunicazione più vera possa instaurarsi tra l'elemento principale che è la natura e chi entra in contatto con essa
no?
Sono assolutamente d'accordo. Mi viene in mente un ambito su cui si potrebbe lavorare. In una società che ha riscoperto il corpo in tanti modi: lo esibisce, lo muove, ci fa ginnastica. E dal momento che i parchi sono luoghi in cui si suda: perché se non si cammina, non ci si muove, non si può andare più di tanto al loro interno. Ecco forse varrebbe la pena, non dico di pensare ad una "neo-ginnastica", ma quantomeno di mettere in connessione questi fatti.
Infondo, gli unici luoghi di natura che in Italia vengono utilizzati sono le spiagge, e forse un po' i campi da sci in inverno, ma infinitamente meno.
Ci hai parlato prima dell'esempio di Al Gore. Obama si dice che abbia vinto la sua campagna elettorale grazie ai nuovi strumenti di internet. Cosa ne pensi? Vedi più rischi od opportunità per esempio in Facebook di cui tutti parlano, tra critiche ed entusiasmi? Per i parchi possono essere utili o è meglio rivolgano altrove le loro energie?
Io sono nato a metà del secolo scorso, e sono più vecchio di Obama. Forse lui ha avuto la fortuna di essere supportato da una squadra di collaboratori giovani. E' vero, quelli della rete sono strumenti straordinari. Facebook lo detesto a priori, mi pare il surrogato di qualcos'altro, ma ripeto questa è un'opinione di chi è nato a metà del secolo scorso. Per i giovani può essere forse una forma di comunità. Ma rimane una comunità per definizione virtuale. Un parco esiste invece nel momento in cui c'è, è reale, fisico, concreto. Voglio dire, non farei un parco su Second Life, [n.d.r. Second Life è il celelbre mondo virtuale on-line creato nel 2003 dalla società americana Linden Lab. Se volete renderervi conto in prima persona di cosa sia, trovate la versione italiana all'indirizzo: www.secondlifeitalia.com] non capisco cosa potrebbe servire e significare. Sicuramente si possono immaginare delle forme per coinvolgere maggiormente i giovani nelle attività e nella vita delle aree protette. Per esempio, nel campo del design, qualche concorso via internet aperto a giovani designer perché realizzino qualcosa per i parchi potrebbe essere una formula.
Non capisco però cos'altro si potrebbe fare con questi nuovi strumenti della rete. Tanto vale far leggere loro, fosse anche tramite internet, Mario Rigoni Stern: credo sia più formativa e utile una lettura così per capire ed avvicinarsi al mondo della natura e dei parchi, che non centomila blog, forum o surrogati del genere.
Tornando ad Al Gore forse, possiamo dire che il suo messaggio sia "al di là" della sostenibilità, mentre Obama usa la scorciatoia della sostenibilità per parlare alla gente. Qui però non si tratta di fare eleggere il presidente degli Stati Uniti, si tratta di valorizzare (altra parola che mi piace poco), di far sopravvivere, di far acquisire senso, significato e forza a delle istituzioni che io considero preziose per il solo fatto che esitano. Ribadisco che io non ho nessun bisogno di andarci per considerarle preziose: questa è un'altra di quelle cose che andrebbero comunicate. I parchi sono un valore in sé. Nonostante ora, a me qui seduto non ne venga in tasca nulla.
Mi pare che nei parchi si custodisca una sapienza profonda della natura che talvolta è molto più vicino a noi di quanto non si creda. Un bell'esempio è quello dell'aeroporto di New York il cui algoritmo per far atterrare e decollare gli aerei è stato mutuato dalle api che entrano ed escono da un alveare. Non credi che questa sapienza dovrebbe essere messa più in vista?
Il problema è molto semplice: questo tipo di pensiero colpisce un numero ridottissimo di persone a questo mondo, ovvero le persone che sono colte. Agli altri queste riflessioni non arrivano. Forse bisognerebbe trovare una formula di comunicazione che non faccia arrivare nei parchi persone in grado di non capire; ma mi pare un po' razzista come atteggiamento e non vorrei quindi sostenerlo con troppa fermezza.
E' vero che troviamo cose più vicine al nostro mondo di quanto non si pensi, ma quello che tu chiami "nostro mondo" è il mondo di alcuni, di pochi, quelli che riescono a leggere in prima persona dietro alle trame della natura.
Bisogna fare i conti con il fatto che sono davvero pochi gli "attori"; il mondo è fatto per lo più di spettatori, colti o ignoranti che siano.
Torno a dire che bisognerebbe coinvolgere o prendere l'esempio di Carlin Petrini, perché ciò che lui ha fatto è restituire al salame un valore di cultura millenaria, invece che di semplice prodotto. Un'operazione che si potrebbe fare in modo parallelo anche sui parchi; il che significa, appunto, tirare fuori i contenuti e renderli visibili.
Servirebbero dei veri "musei di parco", ne servirebbero tanti, che rendano valori e significati delle aree protette percettibili anche ad un occhio non capace di cogliere la trama della vita sotto le foglie. Penso ad alcune strutture a margine dei parchi, che vadano oltre gli attuali centri visita, con allestimenti un po' frivoli ma di contenuto: la ricostruzione di questo, la rappresentazione di quello... Questa è una forma di comunicazione che potrebbe anche fornire quel quanto di risorse economiche per semplificare la vita del parco vero e proprio, che rimarrebbe "dietro le quinte" e che è indubbiamente la vera ricchezza.
(G.C.)
Un flash "dall'interno": intervista a Enrico Camanni
direttore di Piemonte Parchi
Abbiamo riproposto alcune domande in versione "flash" anche ad Enrico Camanni, giornalista e alpinista che molto si è impegnato per la divulgazione delle tematiche legate alla montagna e all'ambiente. Attuale direttore della storica rivista Piemonte Parchi, lo abbiamo interpellato per avere un riscontro "interno" al mondo dei parchi sul tema della comunicazione.
Che cos'è "la comunicazione" oggi? Riesci a darne una definizione?
Comunicare vuol dire passare un messaggio. Il problema è che viviamo in una bulimia da informazione, per cui i messaggi si sovrappongono e si confondono. Ciò che era relativamente chiaro venti, trent'anni fa, oggi corre tali rischi di forzature, ripetizioni, distorsioni da apparire infine opaco e talvolta incomprensibile. Paradossalmente l'età della comunicazione richiede strumenti di attenzione e comprensione superiori all'epoca precedente.
Qual è la tua strategia per comunicare?
Credo che la sfida sia ottenere parole e immagini semplici in un mondo sempre più complesso. Questo richiede al giornalista, o a chi comunica, un lavoro di interpretazione preventiva, allo scopo di "tradurre" il messaggio senza banalizzarlo. Naturalmente l'onestà dell'informazione dipende dal coraggio e dall'autonomia di chi informa.
Come comunicano i parchi?
I parchi soffrono di carenze di comunicazione strutturali, interne agli enti stessi, ma soprattutto pagano l'attuale stato della comunicazione sull'ambiente, tesa quasi esclusivamente ad attenzioni "globali" e spettacolari, tipo effetto serra, riscaldamento terrestre, catastrofi ambientali, etc
In tal modo le tematiche legate al territorio (e i parchi sono pezzi di territorio) passano sempre in secondo piano, così come accade ad altri argomenti fondamentali tipo biodiversità, conservazione delle specie, convivenze e sviluppi possibili. Purtroppo la comunicazione pensa a "vendere" il prodotto, oggi più che mai, e la natura si "vende" solo in forma di turismo. Questa è evidentemente una degenerazione.
Esiste una "comunicazione sostenibile"? Nel caso, puoi farci qualche esempio?
La sostenibilità della comunicazione esiste se si passa un messaggio a prescindere dall'effetto immediato sul pubblico. Così come è sostenibile quella tecnica, per esempio i pannelli solari, che solo a distanza di anni diventerà conveniente, così la comunicazione dovrebbe guardare alla distanza, non solo alla "vendita" immediata del prodotto. I parchi dovrebbero avere proprio la funzione di costruire il futuro, e su questo si dovrebbe incentrare in primo luogo l'informazione specifica, con una funzione educativa sullo sfondo. Non c'è bisogno di fare i bacchettoni, bisogna semplicemente raccontare che cosa accade veramente in quei luoghi, con quali speranze, successi, difficoltà, correzioni di rotta. Tutto il resto è informazione terroristica o patinata, in gran parte inutile.
Esempi? Se vengono giù tre metri di neve non bisogna concentrarsi sui poveri ungulati che muoiono di fame, ma piuttosto raccontare il complesso meccanismo naturale che tende a decimare gli individui più deboli per salvaguardare la specie. Se un parco mette in atto una buona pratica, bisogna divulgarla immediatamente e correttamente, così che anche gli altri territori la possano imitare.
La comunicazione è dominata dalla filosofia del marketing? Pensi sia un atteggiamento adeguato ai parchi?
Tutto è marketing e commercio nella società attuale. Ma il marketing di un parco non deve solo "vendere" natura, ma anche comportamenti virtuosi, esperimenti coraggiosi, buone pratiche, rimedi di sostenibilità.
Cosa sta cambiando nella comunicazione con i nuovi strumenti della rete?
Come tutte le novità, questi strumenti non vanno demonizzati ma nemmeno usati con leggerezza. La rete, i blog, i siti di comunicazione e dialogo hanno potenzialità impensabili, ma spesso mancano di controllo e dunque si ritorna al punto di partenza: non basta informare di più, bisogna anche insegnare a leggere l'informazione.
Quale consiglio daresti alle aree protette per la loro comunicazione del futuro?
Direi che un buon esempio di comunicazione è stata quella sull'alimentazione (Slowfood, etc
). Non si è solo detto alla gente che cosa doveva comprare, in ossequio al mercato del biologico e del mangiar sano, ma si è innanzi tutto fatto passare il concetto che l'alimentazione non ha prezzo, perché fa parte della nostra salute e della nostra cultura. Ecco, credo che i parchi dovrebbero comunicare prima di tutto la cultura che li ha generati, e che nel bene e nel male ne sorregge l'esistenza. Senza cultura tutto diventa merce, anche la natura.
(G.C.)
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