Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 58



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Parchi e paesaggi d'Europa

Un programma di ricerca territoriale*

Il futuro non ha realtà che come speranza del presente (Borges 1984)

Questa nota espone uno schema di ragionamento che riprende e collega riflessioni e proposte sviluppate in pubblicazioni di varia natura in quarant'anni di attività multidisciplinare di studi, da una delle figure di riferimento per il mondo della gestione sostenibile del territorio e del paesaggio nonché delle aree naturali protette e della loro pianificazione.
Sono questi i 4 temi principali su cui si sviluppa l'intervento: la conservazione della natura, la tutela del paesaggio, la gestione del patrimonio storico-culturale, la pianificazione territoriale.

Preambolo
Mi sono chiesto se in quegli studi e soprattutto nelle loro molteplici linee di contatto siano rintracciabili a posteriori i capisaldi di un "programma di ricerca" da sviluppare con organico riferimento all'integrazione delle politiche riguardanti i 4 temi, emblematicamente riassunte nel binomio parchi-paesaggi. Temevo che tale programma lasciasse nell'ombra le attività di progetto (come i Piani di vari parchi nazionali e regionali, i Piani territoriali di alcune province e regioni, i Piani di alcuni centri storici, fino ai Progetti d'intervento su alcuni complessi di particolare interesse storico-culturale), che si sono ampiamente intrecciate e sovrapposte a quelle analitiche, teoriche e ricognitive.
Ma mi sono reso conto che la tensione progettuale ha impregnato le analisi e le riflessioni qui esposte, che vanno quindi lette alla luce delle esperienze progettuali citate. Infine, debbo avvertire che gran parte di quanto qui esposto è frutto di attività collegiali che ho avuto la fortuna e l'onere di coordinare, con la collaborazione di autorevoli colleghi di varie discipline. Lascio a loro il merito dei risultati positivi raggiunti mentre mi prendo interamente la responsabilità delle carenze e degli errori.

1. Convergenze
1.1. Il crescente rilievo della domanda di natura e di paesaggio Parchi e paesaggi hanno assunto un crescente rilievo politico, sociale e culturale nei dibattiti, nelle pratiche e nelle costruzioni retoriche riguardanti la qualità della vita e le speranze di futuro della società contemporanea. La domanda di natura che trova espressione simbolica nei parchi naturali e la domanda di paesaggio, lungi dal potersi rinchiudere nelle preoccupazioni estetiche o edonistiche di esigue minoranze, nascono congiuntamente dalle ansie, dalle paure, dalle delusioni e dalle aspirazioni, da "quell'ampio cambiamento nella struttura del sentire" (Harvey 1993) che caratterizzano la condizione post-moderna.
L'incubo dei collassi ambientali, drammaticamente aggravato dai cambiamenti globali (soprattutto ma non solo il cambio climatico) si intreccia con la crescente, anche se ancora inadeguata, consapevolezza dei processi degenerativi che sgretolano il patrimonio di risorse di cui disponiamo per costruire il nostro futuro. D'altra parte la ricerca di identità e di senso dei luoghi, che connota la domanda di paesaggio, è la spia di un malessere più profondo, che ha certamente a che vedere coi processi di globalizzazione e con i loro contradditori effetti di omologazione e di nuove diseguaglianze; e più in generale col passaggio epocale dalla "società dei luoghi alla società dei flussi", propiziato dalle tecnologie della comunicazione.
1.2. La celebrazione della diversità, della natura e del paesaggio Al cospetto di simili cambiamenti, la questione del paesaggio e la questione ambientale (latamente intesa) paiono sempre più spesso associate. Sono in gioco, sotto entrambi i profili, i rapporti dell'uomo con la terra, con l'acqua, con la natura. Molte delle sfide che la questione ambientale ha gettato sul tappeto- la carenza d'acqua per masse enormi di popolazione, la crisi energetica, le distorsioni strutturali dell'agricoltura, la crescita apparentemente inarrestabile dell'urbanizzazione "post-urbana" che ruba suolo e risorse vitali al mondo rurale, l'allargamento incessante dell'"impronta ecologica" che la città proietta sul territorio, ecc.- riguardano congiuntamente la conservazione della natura e quella del paesaggio. La lotta, lanciata a Rio de Janeiro a livello internazionale (UNCED 1992) contro la perdita di bio-diversità, ha sempre più allargato i propri obiettivi sulle implicazioni culturali, dunque paesistiche, delle dinamiche evolutive, ponendo al centro dell'attenzione la diversità bio-culturale e le sue variazioni. per effetto della globalizzazione ("Goods move, people move, ideas move and cultures change", titolava già dieci anni fa National Geographic, agosto 1999). Non mancano i riscontri empirici, come ad esempio le ricerche in Asia od Africa che mostrano una correlazione positiva tra la diversificazione biologica e quella culturale (misurata in base alla varietà delle lingue, delle religioni e dei gruppi etnici: IUCN-CEESP 2004). A fronte dei contradditori effetti della globalizzazione, la celebrazione della diversità in tutte le sue forme (IUCN 2002) sembra ormai costituire un vero e proprio terreno d'incontro per la conservazione della natura e la conservazione del paesaggio – se si riconosce a questi due termini il significato pregnante che hanno recentemente assunto. Ciò vale in particolare per l'Europa, se è vero che la diversità è il tratto distintivo del "sogno europeo" nei confronti del "sogno americano" (Rifkin 2004).
1.3. Convergenze tra politiche della natura e del paesaggio Questa convergenza di interessi e preoccupazioni si avverte a più livelli. A livello globale, da tempo organismi come l'IUCN hanno richiamato l'attenzione sul ruolo che le politiche del paesaggio sono chiamate a svolgere al fine di conferire maggior efficacia alle politiche di conservazione della natura, con particolare riferimento alle "aree protette" e ai loro rapporti con il territorio circostante.Già il Congresso Mondiale di Durban, nel 2003, aveva approvato una Raccomandazione finale specificamente rivolta a sollecitare la messa in campo di politiche del paesaggio, come strumento chiave per l'allargamento delle politiche di protezione della natura (IUCN, 2003: Raccomandazione CGR3 RES050). Più recentemente, al Congresso di Barcellona, 2008, un apposito Workshop è stato dedicato al "mosaico dinamico paesistico", nella prospettiva di integrare diversità, equità e cambiamento (Borrini Feyerabend, Phillips 2009). Si è ribadito che "considerare il paesaggio più vasto è estremamente importante per perseguire la visione dell'IUCN di un mondo giusto che dà valore e conserva la natura". E simmetricamente si colgono orientamenti volti a promuovere politiche del paesaggio fondate su solidi approcci ecologici, quali quelli offerti dalla Landscape Ecology. Approcci che possono trovare organica considerazione anche all'interno di un quadro giuridico completamente rinnovato come quello costituito dalla Convenzione Europea del Paesaggio (CE 2000). A livello regionale e locale, non mancano le esperienze che hanno colto nella dimensione paesistica opportunità specifiche di tutela e valorizzazione del patrimonio naturaleculturale da contrapporre alle spinte omologanti derivanti dai processi di globalizzazione, anche ai fini del riposizionamento di città e territori nelle arene competitive sovralocali. In tali esperienze - piani urbanistici e territoriali di vario livello, programmi ricognitivi come quelli degli Atlanti, piani e progetti per i parchi e le "aree protette", costituzione di Osservatori del paesaggio o di Ecomusei, ecc. - il paesaggio si configura come una essenziale chiave interpretativa e progettuale dei territori interessati. E inversamente, le aree naturali protette si configurano come terreni privilegiati di sperimentazione ed attuazione delle politiche del paesaggio. È interessante notare che questo reciproco interesse non si verifica soltanto in Europa (dove l'insieme delle aree naturali protette è connotato da una forte mescolanza di valori naturalistici e paesistici: CED PPN 2008), ma anche in altri paesi, come dimostra, ad esempio, l'attenzione del National Park Service americano per i "paesaggi culturali").
1.4. Separazione tra politiche della natura e del paesaggio A dispetto di queste convergenze, non si può evitare di constatare che le politiche del paesaggio e quelle per la conservazione della natura sono tuttora sostanzialmente separate, soprattutto nel nostro paese. Diverse le matrici giuridiche, distinti i quadri legislativi, separate le competenze e le responsabilità istituzionali: tipicamente in Italia, le due leggi fondamentali – la L394/1991 per la natura, il Codice del 2004 per il paesaggio- sembrano reciprocamente ignorarsi, così come le attività di controllo e di guida dei rispettivi Ministeri, per l'Ambiente da un lato, e per i Beni e le attività culturali dall'altro. Non meno gravi le separazioni osservabili a livello europeo, dove le competenze dell'Unione Europea escludono il paesaggio, su cui si è invece autonomamente mosso, con la Convenzione del 2000, il Consiglio d'Europa. Ci si può allora chiedere se e quanto queste separazioni derivino dalle tradizionali barriere scientifiche e culturali, dalle persistenti divisioni disciplinari del sapere e dalla mancanza di un quadro teorico unitario di riferimento. Oppure se inversamente siano esse stesse la causa dei ritardi e delle carenze che si avvertono sul piano scientifico e culturale.
1.5. Un programma di ricerca per uno sfondo comune A partire da domande come queste è forse possibile delineare un "programma di ricerca" volto a costruire uno "sfondo" sul quale tentare di proiettare analisi e progetti che scavalcano i tradizionali steccati disciplinari e mettono in relazione visioni diverse. Non si parte da zero. Una riflessione retrospettiva sulle ricerche ed i progetti che si sono negli ultimi tre o quattro decenni misurati con le tematiche simbolicamente evocate dalla coppia parchi/paesaggi, consente forse di intravedere un itinerario "implicito", saldamente appoggiato al territorio ma non insensibile alle suggestioni provenienti da tematiche diverse, a vario titolo pertinenti quella coppia. Ma questa riflessione non può limitarsi a guardare all'indietro, non può rinunciare alla spinta dell'"anticipazione immaginativa" (Zerbi 2008). Si può anzi avanzare l'ipotesi che proprio uno sguardo al futuro possa consentire di ritrovare i passaggi chiave dell'itinerario percorso.

2. Principi e valori
2.1. Nuovi sistemi di valori potenzialmente in conflitto
La tutela della natura, come quella del paesaggio, ha a che fare con l'affermazione di sistemi di valori; ma i sistemi di valori non sono gli stessi nei due casi. Comprenderne le differenze può aiutare a coordinarne le rispettive politiche. Contano, nel primo caso, valori riconosciuti e presidiati dalle "scienze dure" (come la geologia o la biologia), in termini tali da quasi annullare ogni possibilità di scelta circa le misure di tutela da adottarsi. Tra il riconoscimento oggettivo e scientificamente inoppugnabile del valore e la scelta dei modi con cui proteggerlo, si profila una relazione stringente, al limite deterministica. Nel secondo caso, la tutela del paesaggio, entrano in gioco valori di assai più incerta determinazione, che lasciano ampi spazi all'interpretazione e alla valutazione soggettiva, nonostante il poderoso ausilio delle scienze sociali, in primo luogo la storia. La labilità e la soggettività che ne derivano, in ordine alle misure di tutela e di gestione, sono state esplicitamente riconosciute dalla stessa Convenzione Europea del Paesaggio, che impegna le parti a tener conto, nella valutazione dei paesaggi, "dei valori specifici che sono loro attribuiti dai soggetti e dalle popolazioni interessate"(art.5). Questa distinzione non è peraltro rigida. Anche nel campo della conservazione della natura si è fatta strada una concezione più socialmente sensibile dei valori in gioco; mentre la stessa oggettività scientifica delle valutazioni è sempre più spesso revocata in dubbio (basterà ricordare l'aspra contesa che attraversò il mondo scientifico quando si trattò di scegliere la miglior strategia d'intervento, a fronte dello spaventoso incendio che devastò il Parco di Yellowstone qualche anno fa).
E inversamente il determinismo ecologico (a partire dalla svolta degli anni '60: McHarg 1966) ha profondamente impregnato la cultura del paesaggio, dietro le bandiere della Landscape Ecology. Piuttosto che suggerire una biforcazione tra sistemi diversi di valori, l'esperienza sembra indicare l'intrinseca problematicità della identificazione dei valori, sia nel campo della conservazione della natura che in quella del paesaggio.
2.2. Nuovi diritti Il riconoscimento dei valori naturali e culturali, in particolare di quei valori che il mercato ignora o contrasta, è alla base delle lunghe lotte per il "diritto alla città" (Lefebvre 1970) e per la costruzione dello "stato sociale" (Mazza 2009), rese oggi più aspre dall'emergenza dei fenomeni d'immigrazione e dalle nuove iniquità sociali. Ma il riconoscimento di quei valori porta anche all'affermazione di nuovi diritti e di nuovi doveri, come quelli che in Italia si richiamano all'art. 9 della nostra Costituzione. Accordi e trattati internazionali hanno sancito una progressiva dilatazione dei "diritti ambientali", fra cui quelli che – come tipicamente i "diritti all'esistenza" di beni ambientali irrinunciabili - riflettono interessi collettivi trans-generazionali. Nel contempo si è ampliata la gamma dei "diritti di cittadinanza", che riguardano ormai pacificamente anche valori "intangibili" come quelli estetici o letterari. Può sembrare ironico nel nostro paese, che ha lasciato gran parte delle proprie coste, dei propri paesaggi agrari, delle proprie montagne e dei propri centri storici alla mercé della speculazione immobiliare (e che anzi si accinge tuttora ad assecondarne le spinte in nome dello sviluppo economico) pretendere il rispetto dei "diritti alla bellezza": un lusso che secondo molti non possiamo permetterci. Ma non si può ignorare che sotto quella bandiera si stanno aggregando consistenti ed agguerriti movimenti d'opinione.
2.3. Ragionar per principi Se si accetta l'idea che le politiche della natura e del paesaggio non possano prescindere dai nuovi diritti di cittadinanza, non si può evitare di chiedersi come assicurarne la concreta attuazione, tenendo conto della pluralità e dell'intrinseca conflittualità degli interessi e dei valori in gioco. Una conflittualità che certo non si limita allo scontro tra generici interessi pubblici ed interessi privati, ma contrappone sempre più spesso, come riportano le cronache, diversi interessi pubblici antagonisti. Perché e a quali condizioni il riconoscimento di un paesaggio urbano storico di grande rilievo o di un'impareggiabile paesaggio agrario deve impedire la realizzazione di un grattacielo per uffici pubblici o di una piattaforma logistica o di un grande complesso ospedaliero? Per sfuggire alle insidie del relativismo e reagire all'"indietreggiamento dei valori universali" (Touraine 2008) si invoca l'accettazione di gerarchie di valori. Ma la battaglia sui valori assoluti sembra difficilmente riconducibile alle logiche del confronto democratico aperto ed inclusivo. Se ciascuna delle parti in conflitto si trincera dietro al proprio sistema di valori, l'esito del confronto non può che essere quello di una sopraffazione più o meno violenta e, si può aggiungere alla luce dell'esperienza, tendenzialmente a danno degli interessi pubblici più deboli, come quelli paesistici e ambientali. Di qui l'opportunità, nello spirito della Costituzione, di "ragionar per princìpi", sostituendo alla logica dell'imposizione la logica della persuasione (Zagrebelsky 2009). E' su questo terreno, piuttosto che su quello di un astratto confronto di valori, che anche la conservazione della natura può coniugarsi, rafforzandola, con quella del paesaggio.
2.4. Conservazione e innovazione, un rapporto inscindibile
Se spostiamo l'attenzione sui princìpi, il confronto tra i due ordini di politiche può essere concentrato su alcuni di essi, particolarmente problematici, tra i quali emerge il principio di conservazione. Negli ultimi decenni tale principio ha conosciuto una sconcertante dilatazione del campo d'applicazione e del suo stesso significato, non senza ambiguità e contraddizioni. Sia nei confronti della natura che del patrimonio culturale, la conservazione si è progressivamente staccata da concetti come quelli di "preservazione", salvaguardia, tutela passiva, implicanti il riconoscimento di una condizione di immodificabilità non perfettibile, per lasciare spazio a forme più o meno complesse di trasformabilità, gestione dinamica, attenta amministrazione (Passmore 1986), cura e innovazione. Sebbene la nuova concezione recuperi importanti lezioni del passato, come il conservazionismo di Marsh (1864) o di Leopold (1933), essa si nutre di riflessioni attuali. Da un lato, la constatazione che, più che in passato, non può darsi autentica e durevole conservazione che non comporti trasformazione innovativa ("non si possono separare le cose dal loro divenire": Tiezzi 1999; "il cambiamento fa parte inscindibile della biosfera": Botkin 1990). Ogni intervento sul patrimonio culturale implica tensione innovativa, quanto meno nel ridar senso alle cose; e, d'altro canto, non si fronteggiano efficacemente i rischi e le minacce derivanti dai cambiamenti globali senza "adattamenti" innovativi (Adams 1996). Ma dall'altro lato e simmetricamente, la presa d'atto che ogni autentica innovazione nel mondo contemporaneo implica il confronto con una ingombrante eredità naturale e culturale, con sistemi complessi di "provenienze" (Petz 2004) e di memorie (Schama 1997), che non c'è oblio senza memorie, e che la gestione innovativa degli attuali ecosistemi non può prescindere dalla loro storia precedente (Botkin 1990). In sintesi, la conservazione si configura sempre più come "luogo privilegiato dell'innovazione" (ANCSA, "Carta di Gubbio", 1960-1990).
La conservazione innovativa, lungi dal potersi interpretare come un indebolimento delle opzioni di tutela, implica un impegno rafforzato per la cura dell'eredità territoriale e per la sua trasmissione alle future generazioni (Gambino 1997).
2.5. La dilatazione dell'opzione conservativa
Ma il cambiamento di senso del principio di conservazione è tanto più rilevante in quanto è stato accompagnato da una vera e propria esplosione del suo campo d'applicazione, sia nei confronti della natura che del paesaggio e del patrimonio culturale. Per la conservazione della natura, il cambiamento forse più emblematico riguarda le "aree naturali protette" ed i loro rapporti coi territori circostanti. La ricerca di forme di protezione e di valorizzazione estese a tali territori (secondo lo slogan del Congresso IUCN di Durban, 2003: "Benefits beyond Boundaries": benefici al di là di ogni frontiera), di politiche conservative "a scala di paesaggio", di pianificazione ecosistemica per eco-regioni, di "messa in rete" di ampi sistemi di aree protette variamente caratterizzate, trova un'ispirazione comune nel nuovo modo di intendere il principio di conservazione. Analoga dilatazione si è prodotta in rapporto al patrimonio culturale, con lo spostamento d'attenzione, (che trova emblematica testimonianza nell'evoluzione del pensiero dell'ANCSA: Gabrielli 1997) dai "monumenti" ai centri e agli insediamenti storici, al territorio storico nella sua interezza. Anzi questo spostamento di senso, dal monumento al patrimonio, è strettamente connesso - nei discorsi che da anni studiosi come Francoise Choay (2008) vanno sviluppando - alla "mondializzazione della salvaguardia del patrimonio storico", ossia al riconoscimento internazionale che "non possiamo più permetterci il lusso di lasciarlo andare in rovina". Ancora più esplicito, è appena il caso di ricordare, lo spostamento riguardante il paesaggio, riassuntivamente espresso nella Convenzione Europea del Paesaggio, che sancisce l'obbligo di riconoscere valenza paesistica a tutto il territorio, applicando misure diversificate di salvaguardia, gestione e pianificazione. Sotto tutti questi profili - ed in contrasto, beninteso, con gran parte degli apparati e delle pratiche tradizionali di controllo e tutela- si afferma l'irriducibilità del principio di conservazione a singoli "pezzi"del patrimonio naturale-culturale staccati dal contesto; o in altre parole, l'impossibilità di dividere il patrimonio territoriale in parti da conservare e parti da lasciare alla mercé delle spinte trasformatrici .
2.6. I principi del limite, di diversificazione e di integrazione Naturalmente, quanto più si allarga sul territorio l'opzione conservativa, tanto più si articola e diversifica il suo rapporto con le dinamiche di sviluppo. La contrapposizione tra conservazione e sviluppo, che aveva svolto negli anni ‘60 e '70 un importante ruolo di contrasto nei confronti delle politiche più aggressive e minacciose sotto il profilo ambientale e culturale, lascia spazio a concezioni più articolate, che ri-configurano l'opzione conservativa all'interno del grande tema dello sviluppo sostenibile. Rielaborazione non certo esente da ambiguità e contraddizioni, data l'elevata conflittualità che tuttora contrappone le istanze di tutela alle scelte politiche ed economiche dominanti. Il nuovo modo di intendere il principio di conservazione si ripercuote quindi sugli altri correlati principi che interessano congiuntamente la natura, il paesaggio e il patrimonio culturale, quali: il principio del limite, che muove dalla constatazione della scarsità relativa delle risorse disponibili per ogni progetto innovativo ma che sembra oggi proporsi (a quasi 40 anni dal riconoscimento dei "limiti dello sviluppo": Meadows et al. 1972) più come sfida che come confine o barriera insuperabile; il principio di diversificazione, che muove dalla consapevolezza del ruolo insostituibile della diversità nell'attivare le relazioni vitali ecosistemiche, economiche, culturali e territoriali, in contesti tuttavia altamente conflittuali, che mettono a dura prova le identità locali e regionali; il principio di integrazione, che muove dal riconoscimento dell'esigenza di azioni pubbliche coerenti per la tutela e la valorizzazione efficace del patrimonio naturaleculturale, con particolare riferimento agli effetti cumulativi delle diverse politiche territoriali, generali e settoriali.

3. Nuovi paradigmi
3.1. I nuovi paradigmi per le aree naturali protette
Al fine di integrare efficacemente le politiche per la natura con quelle per il paesaggio e il patrimonio culturale, occorre considerare i modi con cui i principi sopra richiamati trovano applicazione nei diversi campi d'azione: le prospettive e gli orientamenti gestionali, le matrici di idee e i quadri metodologici di riferimento sono infatti cambiati assai più di quanto normalmente si pensa. Nel 2003, in occasione del V Congresso Mondiale dei parchi, l'Unione Mondiale della Natura lanciò i "nuovi paradigmi" per i parchi e le aree protette, frutto di un'elaborazione complessa e non esente da contrasti, ulteriormente sviluppata negli anni successivi. Pur muovendosi nel solco del pensiero dell'IUCN, essi propongono alcune innovazioni importanti ai fini di queste note (Phillips 2003). In primo luogo, un netto contrasto all'"insularizzazione" delle aree protette, vale a dire alla visione ancora sostanzialmente dominante che le configura come "isole" da tutelare immerse in contesti ambientalmente ostili o comunque separati sotto il profilo ecologico, paesistico e culturale. Configurazione che non solo le rende vulnerabili (nessun parco, compresi i grandissimi parchi nordamericani, asiatici o africani, è grande abbastanza da poter essere efficacemente protetto solo al proprio interno), ma ostacola anche l'irradiamento dei benefici prodotti dalla valorizzazione "al di là" delle frontiere, in termini di sviluppo sostenibile. Alla logica "insulare"si contrappone in particolare la logica "reticolare" affidata alle reti di connessione ecologica. In secondo luogo, i nuovi paradigmi mettono in discussione la missione stessa dei parchi e delle aree protette, postulando un allargamento del ventaglio degli obiettivi, da quelli strettamente ecologici a quelli sociali e culturali.
In terzo luogo, si introduce esplicitamente il rapporto con le popolazioni e le comunità locali, riconoscendone un ruolo attivo e potenzialmente anche prioritario nella gestione delle aree protette (le loro istanze di sviluppo prendono il sopravvento rispetto agli interessi dei visitatori). Per tutti e tre gli aspetti sembra valere la suggestiva metafora delle reti evocata dal Chatwin (1988), che contrappone alle reti ecologiche specie-specifiche (come le rotte dei lupi o quelle degli orsi) le Vie dei Canti o le Piste dei Sogni degli aborigeni australiani, che trasformano il paese in "reticolati di percorsi di popolazioni non stanziali" (Gambino 2007).
3.2. Il mondo delle aree protette Sebbene i nuovi paradigmi investano più o meno esplicitamente il quadro complessivo della conservazione della natura e più precisamente della difesa della biodiversità, il loro significato va posto in relazione con la realtà complessa e multiforme delle aree protette, i cui lineamenti principali riguardano (CED PPN 2008):
l'elevata incidenza territoriale, pur variabile tra le diverse parti del pianeta, i paesi e le regioni: la superficie protetta dalle "aree protette" istituite dalle nazioni e riconosciute dall'IUCN copre il 13% della superficie territoriale complessiva a livello globale, il 18% a livello europeo; ad essa si aggiunge e in parte si sovrappone la superficie protetta da istituzioni sovra-nazionali, come le zone umide degli accordi di Ramsar o i Siti della direttiva europea "Natura 2000"; la crescita impetuosa ed incessante del numero e della superficie delle aree protette (crescita ancora del 23% della superficie protetta nell'ultimo decennio) e più in generale del loro impatto territoriale, economico, politico, sociale e culturale; crescita che attesta la persistenza di un rilevante consenso sociale, ma nasconde altresì la scarsa efficacia gestionale di un parte cospicua delle aree protette e i loro rapporti irrisoti con le comunità locali; l'estrema e crescente diversificazione delle aree protette, solo in parte riconducibile alle classificazioni proposte dall'IUCN (1994 e 2008) e che, in generale, lascia intravedere un forte spostamento dai "santuari della natura" e dalla "wilderness" verso le aree rurali e quelle prossime od inglobate in contesti più densamente urbanizzati; ciò vale soprattutto in Europa, dove, significativamente, più della metà delle aree protette sono classificate come "paesaggi protetti"; la crescente frammentazione ecologica e paesistica, sia all'interno delle aree protette che nei rispettivi contesti, in funzione della dispersione degli sviluppi insediativi, della proliferazione infrastrutturale, della "ingegnerizzazione" del territorio.
3.3. Il paradigma paesistico secondo la CEP Nell'insieme, i nuovi paradigmi per la conservazione della natura sembrano interpretare le tendenze in atto nel senso di una necessaria e crescente apertura al paesaggio e al territorio. A questa fa simmetrico riscontro il "paradigma paesistico" maturato nell'ambito della Convenzione Europea del Paesaggio. Questa infatti sembra strappare definitivamente la nozione sociale del paesaggio dalle interpretazioni settoriali e richiederne invece una interpretazione olistica, capace di mettere in conto congiuntamente dimensioni diverse, da quella ecologica (richiamata dalle interazioni tra fattori naturali e fattori antropici), a quella sociale (componente del contesto di vita delle popolazioni) a quella semiologica, estetica e culturale (espressione del comune patrimonio e fondamento dell'identità).
Il paradigma paesistico, come configurato nella Convenzione, non sembra rimuovere l'ambiguità di fondo del paesaggio (Gambino 1994b), quel suo alludere contemporaneamente all'immagine della realtà e alla realtà osservata, quel suo proporre una bi-sociazione (quale quella colta dal Koestler, 1964, nell'emblematica figura di Don Chisciotte, tra realtà e immaginazione) aperta e mai conclusa tra fatti e rappresentazioni. Ma la Convenzione prende le distanze sia dall'oggettivismo scientifico intriso di determinismo e carico di certezze tipico della Landscape Ecology, sia dal soggettivismo che ha impregnato gran parte della lettura estetizzante coltivata dalla tradizione italiana. Certo, essa dà spazio all'interpretazione semiologica (il paesaggio è un formidabile strumento di comunicazione), ma con un'importante implicazione: che il sistema segnico del paesaggio non può in alcun modo tradursi in un insieme "dato" di significati, che la semiosi paesistica è un processo sempre aperto (Dematteis 1998). La dinamica delle cose -l'ecosfera - è inseparabile dalla dinamica dei significati - la semisfera - e quindi dai processi sociali in cui questa si produce (ibidem). Ne segue che il paesaggio, in quanto spazio di semiosi aperta, non può essere quello, cognitivamente perfetto (Socco 1998) che forma oggetto delle scienze dure. È in questa dinamica apertura che si collocano le sue funzioni simboliche e metaforiche, estetiche e narrative, e i suoi depositi mitici e memoriali. Certo, il paesaggio è teatro (Turri 1997); ma non un teatro "dato", con le sue scene fisse e i suoi fondali immobili, dove soltanto attori e spettatori possono cambiare.
3.4. Un ponte tra natura e cultura È in questo senso complesso che il paesaggio lancia un ponte tra natura e cultura, oltrepassando la rappresentazione "occidentale" del rapporto tra l'uomo e la natura e mettendo in discussione il dualismo cartesiano tra il corpo e la mente, tra lo spirito e la materia (Cini 2000). La dissoluzione della "naturalità" della natura, se da un lato apre la strada a nuovi valori universali (Giddens 1997 citato da Cini op.cit) dall'altro avvalora la tesi di Bateson ed altri, che nega in radice la possibilità di distinguere le scienze umane dalle scienze naturali. Da questo punto di vista, il paradigma paesistico va incontro alla natura non tanto per allargare il proprio campo d'attenzione, quanto piuttosto perché la natura fa parte integrante e imprescindibile del dispositivo paesistico. Si potrebbe osservare che ciò era già implicito nella "stimmung" di Simmel (1912), non meno che nelle "scoperte" fondamentali di von Humboldt (1860). Ma più ancora dei millenari processi di "domesticazione" del mondo naturale, sono gli attuali pervasivi processi di "simulazione" (Raffestin 1998) a piegare definitivamente le dinamiche naturali alle nuove geometrie dell'azione antropica, pretendendone una interpretazione unitaria. Questa è anche la ragione per cui l'allargamento della valenza paesistica all'intero territorio (voluto dalla Convenzione) non va visto come una semplice dilatazione spaziale delle istanze di tutela, ma implica una visione diversa dell'accoppiamento tra natura e paesaggio, in linea con il principio di conservazione sopra ricordato.
3.5. Un nuovo rapporto tra natura e città
La bipolarizzazione tra natura e cultura, e in particolare tra parchi e città - splendidamente rappresentata nella prospettiva rinascimentale, ripresa in visioni ottocentesche come quella di F.L. Olmsted (che quasi contemporaneamente progetta il Central Park nel cuore di New York e il primo grande parco naturale statale americano, quello di Yosemite) e tuttora operante - è stata messa a dura prova dai grandi cambiamenti economici-territoriali. Cambiamenti il cui aspetto più emblematico è rappresentato appunto dall'"urbanizzazione" del mondo naturale, in termini di contaminazione spaziale che ne cancella ogni riconoscibile confine, di allargamento continuo dell'"impronta ecologica" della città, di impatto crescente della cultura urbana che orienta i comportamenti e gli sguardi dei cittadini sugli spazi e le risorse naturali. Il paradigma classico del rapporto tra natura e città deve essere radicalmente ripensato, in funzione dei nuovi significati che la "naturalità" e l'"urbanità", figlie entrambe della cultura e della storia, hanno assunto per la società contemporanea.
"I luoghi centrali della vita collettiva, i luoghi dell'identità e del senso comune dello spazio, non sono più soltanto dentro alla città compatta ereditata dal passato, così come il contatto con la natura non può essere relegato ai margini dello spazio abitato, ma va riconquistato dentro alla città contemporanea, respingendo le seduzioni ingannevoli della zonizzazione moderna [….].
L'interesse crescente per i programmi di rigenerazione volti a "riportare la natura in città (greening the city), per i progetti di recupero e riqualificazione delle fasce fluviali per i sistemi delle acque storicamente consolidati, per il riuso non meramente immobiliare dei ‘vuoti urbani' e delle grandi aree dimesse, segnala il maturare di una nuova consapevolezza dei deficit che occorre rimuovere […]. Il tema del rapporto tra parchi e città si inquadra allora in quello più ampio delle reti e degli spazi di relazione nel territorio contemporaneo: delle piazze e delle vie, dei luoghi e delle loro connessioni, dei solchi fluviali che lo attraversano e del verde urbano che gli consente di respirare. Non mera architettura di contesto, ma sistema connettivo diramato e complesso che lega esterno e interno, eredità storiche e dinamiche ambientali"(Gambino 2007b).
3.6. Paesaggi culturali o cultura dei paesaggi?
Queste considerazioni inducono peraltro a mettere in discussione un concetto che ha raccolto grande interesse a livello internazionale soprattutto nell'ultimo decennio: quello di "paesaggio culturale". Concetto che non soltanto ha portato a individuare una molteplicità di campi specifici di sperimentazione delle politiche del paesaggio; ma che ha trovato anche riscontro nei criteri con cui l'Unesco costruisce la lista dei Siti del Patrimonio Mondiale dell'Umanità (dal 1992 sono stati infatti inseriti nella lista anche un certo numero di paesaggi culturali di eccezionale valore, integrando la Convenzione 1972). Ora la domanda che si pone al riguardo è questa: se si riconosce in generale ai paesaggi (tutti, compresi quelli dell'ordinarietà e del degrado), un insopprimibile significato culturale, ha ancora senso individuare nella valenza culturale il carattere distintivo con cui selezionare i Siti "eccezionali"da inserire nella lista? Notiamo di sfuggita che analoga domanda può, in definitiva proporsi per tutte le "aree naturali protette" nella misura in cui le si riconosce portatrici di una speciale valenza naturalistica..

4. Relazioni e reti.
4.1. Dagli oggetti alle loro relazioni
In modi e per ragioni diverse il paradigma paesistico e i nuovi paradigmi naturalistici pongono l'esigenza di andare oltre i singoli "oggetti" depositati nel territorio per coglierne le relazioni dinamiche e coevolutive. Non è un problema di scala, al contrario è un problema che si pone a tutte le scale, dalla casa alla città alla regione, come già emergeva dalla critica del Correalismo dell'architettura di Kiesler, 1939. Ma in sistemi complessi come gli attuali sistemi territoriali, ciò richiede la considerazione di reti di connessione di vario tipo, ricche di ridondanze e di reciproche interazioni, ma anche mutilate o interrotte sempre più spesso da barriere o discontinuità derivanti dai processi di trasformazione territoriale. Questa esigenza ha trovato riscontro nei "nuovi paradigmi" sopra richiamati con particolare riferimento ai processi di frammentazione ecosistemica da tempo evidenziati (Bennett 1999); ma è facile accorgersi che ha portata assai più generale. Alla produzione di luoghi che caratterizza la "produzione di territorio" non può non affiancarsi la costruzione di reti, che assicurino o ristabiliscano le connessioni vitali: nello spazio (tra fatti variamente dislocati nel territorio), nel tempo (tra fatti variamente scaglionati nella storia del territorio) e nella società (tra soggetti e gruppi sociali differenti) (IUCN 2005). In questo senso il territorio può essere pensato come "rete di reti". Ma questo obbliga anche a prendere in considerazione tutte le relazioni variamente influenti sulla connettività dei sistemi, nella triplice dimensione sopra ricordata. In altre parole, il "paradigma reticolare"non può che avere carattere fortemente multidimensionale. La sua utilità consiste nel comprendere ed esplicitare le interazioni che si determinano tra le diverse reti connettive che attraversano il territorio, legando fatti ed azioni apparentemente separati.
4.2. Alla ricerca di un paradigma reticolare trasversale
Ma le ricerche sviluppate sin dai primi anni '90 in questa direzione, sia sul piano dell'analisi empirica che su quello della elaborazione teorica, non sembrano aver portato alla costruzione di un vero paradigma trasversale, capace di "mettere insieme" reti diverse, come quelle ecologiche, quelle culturali, quelle urbane, quelle d'impresa o quelle infrastrutturali. Anche se non mancano attraenti ipotesi circa l'esistenza di relazioni significative tra di loro, come "le relazioni ecologiche attivate da (o comunque connesse con) le reti infrastrutturali e di interazione sociale" (Dematteis 1993). La riflessione critica e la sperimentazione sulle reti ecologiche hanno dimostrato la difficoltà e l'inopportunità di separarne il ruolo biologico da quello culturale ampiamente inteso (spingendo perciò ad elaborare il concetto di connessione bio-culturale). L'esperienza dei parchi ha evidenziato gli stretti rapporti tra i sistemi di aree protette in quanto risorse territoriali e le reti degli enti di gestione delle stesse, in quanto soggetti sovra-locali di governo del territorio che possono cooperare anche a distanza (come ad esempio nella Rete dei Parchi Alpini).
Un'ampia letteratura scientifica ha da tempo studiato le reti gerarchiche urbane (Camagni 1990) e in particolare le relazioni sinergiche tra le reti urbane degerarchizzate, depolarizzate ed auto-organizzate e le reti equipotenziali dei trasporti che le servono. Gli esempi potrebbero continuare e mettere in luce non solo convergenze e interazioni, ma anche la possibilità di riscontrare in questi diversi tipi di reti alcune "proprietà" comuni: come l'esistenza di relazioni non basate sulla contiguità spaziale (e il parallelo indebolimento dei vincoli di prossimità), o di relazioni di interdipendenza multilaterale, o di ridondanze che aprono alternative, o di relazioni dicotomiche (stare o non stare in rete).
4.3. Trame auto-organizzate e ordinamenti gerarchici Nel tentativo di sviluppare una interpretazione unitaria delle diverse reti, è stato proposto l'accoppiamento di due concetti chiave, quello di "trama auto-organizzata" e quello di "gerarchia ordinata di elementi uniformi" (De Landa 2003): concetti suscettibili di attraversare il mondo fisico-geologico, quello biologico e quello"linguistico"-culturale.
Tre mondi pensati non già come tre sfere separate e diversamente progredite, ma come tre flussi coesistenti e interattivi di materia, energia e informazione. In questa visione, il variabile accoppiamento dei due concetti chiave sembra prestarsi a collegare interpretazioni reticolari differenti, nate e sviluppate in contesti teorici assai distanti, come le reti di località centrali teorizzate dal Chistaller e da altri (Dematteis 1993), le reti ecologiche o le reti di comunicazione sociale. Un obiettivo importante ed ambizioso, nei nuovi scenari della globalizzazione: "si tratta infatti di capire se e a quali condizioni le reti si configurano come trame auto-organizzate che, nascendo dalle realtà locali, possono contrapporsi dialetticamente agli ordinamenti gerarchici, o, al contrario, come proiezioni di un ordine superiore che lega le realtà locali in sistemi di relazioni esogene ed eterodirette"(Gambino 2009). È una domanda che va al cuore dell'"urbanità", dilatando e complessificando il senso e il ruolo della "centralità", andando ben oltre quelle interpretazioni "diagonali" che già negli anni '70 avevano richiamato l'attenzione, soprattutto dei geografi (Bird 1977, Gambino 1983).
4.4. Una risposta territorialista
Ma la risposta a questa domanda va oltre il paradigma reticolare, per quanto lo si voglia o lo si possa dilatare. Infatti, il ruolo che ciascun nodo può svolgere nelle reti di cui fa parte dipende crucialmente dai suoi caratteri specifici, dalle risorse mobilitabili, dalle capacità auto-organizzative e dall'ambiente operativo di cui si dispone. Il ruolo della specificità nei nuovi scenari competitivi sovra-locali non è separabile dalle ragioni "interne" della sostenibilità e della coesione, non è interpretabile solo in termini di nodalità. Perché il territorio non è fatto soltanto di reti di vario tipo e livello, che vi si incrociano interagendo, è fatto anche di luoghi, dotati di una propria individualità, di una propria - più o meno riconoscibile e riconosciuta - identitภe quindi di una propria, maggiore o minore, capacità di resistere alle spinte derivanti dai mutamenti globali e di difendere i propri valori e le proprie ragioni. Luoghi e reti rappresentano da tempo una duplice metafora interpretativa della territorialità contemporanea (Gambino 1994a). È nei luoghi concreti della realtà territoriale, non in quella astratta costruzione mentale che chiamiamo spazio (Raffestin 2009), che i paradigmi ecologici e paesistici di cui abbiamo discorso, prendono consistenza. È in rapporto alle diversità dei luoghi che si può parlare di identità e tentare di coglierne le tendenze evolutive, le derive localistiche, le intrinseche conflittualità. Perché sono nel territorio i luoghi reali degli scontri di interessi e di valori che determinano i rischi e il degrado incombenti sulla natura, il paesaggio e il patrimonio culturale. È dunque nel territorio il terreno comune nel quale tentare di incrociare le politiche della natura e le politiche del paesaggio, facendole interagire con le altre politiche dei diversi settori interessati, a partire da quelle propriamente urbanistiche. Di qui la "nuova centralità" del territorio, sullo sfondo della transizione post-fordista dell'economia globale, che restituisce importanza alle diversità e alle specificità locali e, nel contempo, fa esplodere le incompatibilità ambientali, in tutte le dimensioni, comprese quelle economiche e sociali. Si ripropone, al di là delle frontiere del neo-funzionalismo, l'attualità del "Manifesto territorialista" (Magnaghi 1990, 1998), che pone al centro dell'attenzione '"abitare" il territorio, nel significato più pieno del termine.
Una posizione non certo priva di rilevanti ascendenze: basti pensare alla concezione, in Cattaneo (1845), del "paesaggio edificato" in cui si riflette la storia dei disegni territoriali degli uomini; o all'equazione heideggeriana tra abitare e edificare. Ma il confronto diretto coi problemi e le attese locali è gravido di interrogativi. Esso costringe a ridefinire il concetto di identità, scontandone la variabilità nel tempo e la potenziale conflittualità: le identità "armate" o "bellicose" che possono "trasformarsi in un'arma potentissima per esercitare violenza" (Amartya Sen 2006). Ma insieme occorre ridefinire anche il concetto di sostenibilità, accettandone l'imprescindibile multidimensionalità, oltre i limiti ed i miti dell'ambientalismo militante (Scandurrra1998). Nel quadro del generale ripensamento del concetto di sviluppo, particolare interesse assume a questo riguardo la teoria dello sviluppo locale, che tende ad offrire un'interpretazione unitaria e "progettuale" del capitale territoriale, ossia dell'insieme dei fattori tangibili ed intangibili, naturali e culturali, su cui si fondano le prospettive di sviluppo dei "sistemi locali territoriali", SloT (Dematteis, Governa 2005). Sono queste prospettive che possono dar senso al recupero del rapporto tra la gente e i luoghi, tra formazioni sociali e territori, per la società contemporanea intrinsecamente "deracinè", attraversata da violenti processi di deterritorializzazione, pervasa dal nomadismo e dalla continua ricerca dell'altrove.

5. Interpretazioni e progetti di territorio
5.1. Il ruolo interpretativo delle rappresentazioni
La prospettiva territorialista si apre ad un ampio ventaglio di interpretazioni, in cui le diverse rappresentazioni si fecondano a vicenda (Raffestin 2009). Una nuova idea del territorio - che incorpori una nuova idea del rapporto tra l'uomo e la natura, quale quella proposta dai nuovi paradigmi sopra richiamati - implica nuove rappresentazioni. Problema centrale per la riflessione geografica, che da tempo si è concentrata sulla circolarità dei rapporti tra l'osservazione del reale e la realtà osservata. Con le parole di Olsson (1975), "qualsiasi cosa io dica debbo servirmi di un linguaggio, che a sua volta riflette sia il mondo che la visione che io ho di esso [….]non esiste una distinzione netta tra la realtà e lo specifico linguaggio attraverso il quale noi la concepiamo, ne discutiamo e la cambiamo".
Il che suggerisce due considerazioni rilevanti ai fini di queste note .La prima riguarda il ruolo della rappresentazione nella relazione circolare tra conoscenza e realtà osservata Seguendo Raffestin (2009), "la rappresentazione è lo spazio di trasformazione attraverso il quale, grazie all'ausilio di un linguaggio, di una logica naturale o formale e a una certa scala, non soltanto cartografica ma ancora informativa, il ‘reale unico' è compreso, per averne o restituirne una o più immagini...". Ne segue che "nessuna rappresentazione è esente da deformazioni (atrofie e ipertrofie), come la storia della cartografia ha da tempo evidenziato. L'"arte" della rappresentazione non può evitare di prendere le distanze da ogni pretesa di oggettività e neutralità scientifica e di cercare la giustificazione delle proprie "deformazioni" in processi di certificazione sociale aperti e inclusivi. Inoltre, seconda considerazione, il contributo che le diverse discipline e i diversi saperi possono portare alla comprensione della realtà territoriale è inevitabilmente parziale e diverso da quello degli altri (poiché ogni linguaggio comporta differenti "deformazioni"): sicché l'integrazione dei diversi contributi in visioni olistiche riassuntive non può avvenire col semplice loro affiancamento, ma richiede un confronto critico ed una composizione per così dire "negoziata" e trasversale.
5.2. La carne e le ossa del mondo
Attraverso il "circolo ermeneutica" teorizzato da Gadamer (1986), rappresentazioni e conoscenza del reale prendono parte attiva nei progetti di cambiamento territoriale. Anche quando tali progetti non siano guidati o influenzati da esplicite ipotesi o mete progettuali, com'è stato dimostrato (Dematteis 1995, Magnaghi 2009) esiste una responsabilità indeclinabile del sapere esperto nel suggerirli, assecondarli o contrastarli. Rendere espliciti i progetti impliciti (chiarire i problemi, i rischi e le poste in gioco) può essere considerato un requisito necessario di trasparenza. Ma questo comporta una selezione mirata delle informazioni disponibili, tanto più quanto più le tecnologie informatiche consentono di produrle in grande quantità. Si tratta, per usare una metafora cara ai geografi, di intervenire sulla "saldatura tra la carne del mondo, cioè quanto è soggetto alla deperibilità e al cambiamento rapido, e le ossa del mondo, che in questo caso rappresentano la storia biologica e i tempi lunghi della coevoluzione della nostra specie con l'ambiente terrestre" (Quaini 2009). Certo questo compito rende cruciale il ruolo del paesaggio, come "terreno silenzioso sul quale si incontrano le scienze dure e le scienze umane" e dove anzi il sapere tecnico-scientifico incrocia il sapere comune, la conoscenza implicita degli abitanti e delle comunità locali. Ma come si concilia questo compito collettivo con la soggettività intrinseca dell'esperienza paesistica, che la crescente mobilità e il nomadismo della società contemporanea tendono ad accentuare, fino a configurare il paesaggio come un "ipertesto" (Cassatella 2001)? Esiste un "senso comune" del paesaggio a cui fare riferimento nell'interpretazione interdisciplinare e trans-disciplinare del territorio? Nel rispondere positivamente a queste domande, Dematteis (richiamando anche Castelnovi, 1998) indica nel senso comune del paesaggio una risorsa progettuale, spendibile non tanto in una progettualità normativa specifica, quanto piuttosto come risorsa strategica per lo sviluppo e per il miglioramento della qualità della vita. È in questa prospettiva progettuale ampia e complessa che occorre tentare una considerazione sintetica del'ecosfera, della semiosfera e della sociosfera.
5.3. I rapporti col tempo e con la vita
Nel tentativo di individuare il discrimine "tra la carne e le ossa del mondo", si sono moltiplicati negli ultimi anni - soprattutto nell'ambito della pianificazione ambientale e paesistica - gli sforzi per fondare criticamente una interpretazione "strutturale" del territorio. In questa direzione, è decisivo il rapporto col tempo, in quanto "misura del mondo" (Zumthor 1995).
In fondo, già per Levy Strauss(1966) "le strutture non sono che le intersezioni nel tempo e nello spazio di processi in via di cambiamento". Ma si può ripartire anche dalla nota immagine di Braudel (1982): tre flussi separati e compresenti (la vita materiale quotidiana, le attività di mercato, e quelle anti-mercato) che scorrono a velocità differenti, integrandosi coi movimenti assai più lenti della geologia, e che sono subitaneamente attraversati dai ritmi sincopati delle decisioni finanziarie. "Per la moderna cultura tecnico-scientifica, impegnata a inseguire il cambiamento, a tenere il passo con la velocità dei processi di trasformazione", in particolare "il paradigma paesistico è un invito a considerare i tempi lunghi della terra, la stabilità e la permanenza dei segni della storia, ‘ciò che resta' più di ciò che cambia" (Gambino 2004). Non casualmente, varie interpretazioni strutturali si richiamano ad una definizione del concetto di struttura nata in campo biologico. Secondo Maturana e Varela (1987), la struttura va "intesa come l'insieme delle componenti e delle relazioni con cui l'organizzazione di un sistema si manifesta concretamente ed adattivamente.
Il significato operativo di questa definizione è stato reso più chiaro, in alcune applicazioni, col ricorso ad una matrice che incrocia la tipologia dei fattori (geomorfologici, biologici, insediativi, semiologici e percettivi, storico-culturali…: la lista è aperta, potendo variare nei diversi contesti l'importanza relativa dei diversi fattori) con la loro rilevanza strutturale. Quest'ultima è declinata distinguendo dai fattori propriamente strutturanti, quelli caratterizzanti (che consentono di aggettivare i caratteri dei singoli sistemi locali rendendoli riconoscibili dagli altri anche strutturalmente simili), quelli qualificanti (che conferiscono ad ogni singolo sistema locale qualità o valori aggiuntivi particolari, pur senza determinarne la struttura o i caratteri di fondo); e infine quelli che denotano criticità o degrado, indipendentemente dalla struttura e dalla caratterizzazione. In altre esperienze, fondate sui "racconti identitari" (come in Liguria) o sull'individuazione delle "invarianti strutturali" (Emilia) o sugli "statuti dei luoghi" (Toscana), lo spazio interpretativo sembra ulteriormente dilatarsi, accentuando l'interdipendenza col progetto.
5.4. Interpretazioni strutturali e strategie progettuali
La critica alle interpretazioni strutturali investe appunto principalmente il rapporto col progetto, che può oscillare da un vero e proprio determinismo normativo (nei casi in cui le indicazioni scaturenti dall'interpretazione strutturale assumono direttamente valenza normativa invalicabile nei confronti di ogni ipotesi progettuale) ad un flessibile condizionamento, nei casi in cui le indicazioni siano di chiaratamente prive di valenza normativa, per lasciare spazio alle autonome scelte progettuali. In ogni caso il rapporto col progetto è gravido di implicazioni politiche e culturali. Occorre infatti chiedersi se e fino a che punto l'interpretazione strutturale possa tenere conto delle opzioni di fondo del progetto, senza smarrire il proprio legame essenziale con la realtà in atto e i suoi sistemi di valori, senza tradire i suoi caratteri identitari. Non è qui in questione il fatto che l'interpretazione debba avere carattere dinamico ed evolutivo e prendere in considerazione non tanto "fattori" quanto relazioni e processi. Non è neppure in questione l'uso del binomio "invariante strutturale", che alla luce delle definizioni richiamate sembrerebbe anzi poter configurare un ossimoro fuorviante. È piuttosto in questione la possibilità che l'interpretazione non si limiti ad una ricognizione del territorio in esame, ma incorpori od anticipi traiettorie evolutive di rilevanza strutturale: diventando di fatto un "piano strutturale". È questa l'impostazione privilegiata in Italia da varie legislazioni regionali e dai principali disegni di legge per il governo del territorio attualmente in discussione, che hanno inteso riconoscere nella pianificazione strutturale una configurazione pianificatoria radicalmente innovativa, che può tuttavia per molti aspetti ricordare gli Structure plan o gli Schema directeur di passate stagioni. Ma la questione non riguarda soltanto la pianificazione urbanistica a livello comunale, provinciale o regionale. Riguarda il progetto di territorio a tutte le scale, nella misura in cui si intenda evitare di confondere il rispetto e la cura conservativa dei valori in atto e delle loro potenzialità evolutive, con la supina accettazione di scelte e decisioni trasformative anche potenzialmente lesive dei suddetti valori (quali ad esempio le grandi scelte infrastrutturali).

6. Pianificazione e politiche di governo
6.1. Il progetto di territorio come processo sociale
Scopo di queste note è quello di suggerire spunti per un programma di ricerca che consenta di integrare efficacemente le politiche della natura e del paesaggio tra loro e con le altre politiche territoriali. Alla luce dei nuovi paradigmi richiamati, il progetto di territorio è il luogo privilegiato per questo sforzo di integrazione. In quanto tale, il progetto di territorio non è in alcun modo riducibile alla sommatoria incoerente di singoli atti tecnico-amministrativi che caratterizza l'attuale carenza di un progetto collettivo della città (Mazza 2009). Al contrario, esso comporta un processo articolato e complesso di attività, che coinvolge un ampio ventaglio di soggetti istituzionali, di portatori di interessi e di esponenti della società civile. Già la Convenzione Europea del Paesaggio si è mossa in questa direzione, mettendo in primo piano le azioni di sensibilizzazione e di rafforzamento della consapevolezza collettiva dei valori e delle poste in gioco, di educazione e di formazione, oltre a quelle di tutela e di pianificazione; e, conseguentemente, ponendo l'obbligo di tenere conto delle percezioni e delle attribuzioni di valore dei soggetti e delle popolazioni interessate. Sebbene questo obbligo sia espresso in termini volutamente vaghi (e non trovi quasi riscontro nel nostro Codice dei beni culturali e del paesaggio), sembra evidente che ci si debba qui riferire non solo alle comunità e ai poteri locali in senso stretto, ma anche ad altre articolazioni sociali insorgenti, orientate alla "cura" dei paesaggi locali (care-taker) e alla loro valorizzazione nelle reti sovra-locali. Ancora più incerta e problematica l'individuazione del referente sociale per le politiche di conservazione della natura, alla luce dei nuovi paradigmi sopra richiamati. Infatti, non soltanto si rafforza in generale il riferimento alle comunità locali per la gestione delle aree protette (ed in particolare per quelle aree esplicitamente affidate alla gestione comunitaria: categoria VI della classificazione IUCN 1994, 2008), ma si pone ormai tangibilmente l'esigenza di allargare le azioni di tutela e valorizzazione ai rispettivi contesti eco-territoriali e alle reti di connessione; cosa che richiede alleanze e cooperazioni con una pluralità di soggetti non solo istituzionali, da individuare nel vivo dell'elaborazione progettuale. Se poi consideriamo le altre componenti del progetto di territorio, quali quelle riguardanti l'urbanistica, lo sviluppo rurale o le reti infrastrutturali, il quadro di riferimento si complica ulteriormente.
Ed ancora, ulteriori complicazioni derivano dal ruolo stesso che il paesaggio è chiamato a svolgere negli attuali processi di trasformazione territoriale. "In quanto fondamento delle identità locali, il paesaggio non si limita a porre in rete quei fatti e processi naturali e culturali che connotano i quadri ambientali, ma ‘li mette in scena', li esibisce e spettacolarizza. Ed è proprio questa spettacolarizzazione (il paesaggio come teatro, in cui agiscono attori che diventano spettatori di sé stessi: Turri 1998) che spiega forse il successo mediatico che si registra attorno agli eventi che creano o ripropongono i paesaggi urbani o i grandi paesaggi territoriali" (Gambino 2007b).
6.2. Governance e sostenibilità sociale
A fronte della complessità delle azioni e dei soggetti implicati, le forme tradizionali di intervento pubblico sono palesemente inadeguate. In questo come in altri campi dell'azione pubblica, le attività di governo realizzabili autonomamente dalle singole autorità istituzionali sono soltanto una parte delle attività di "governance", se con questa alludiamo ad un insieme complesso di attori interagenti, di risorse diversificate e di procedure che orientano il formarsi delle decisioni concrete di un gruppo sociale (Le Galés 2002, Bagnasco 2009).
Ciò vale a maggior ragione per il progetto di territorio, orientato ad integrare politiche diverse, che competono a soggetti istituzionali differenti e toccano interessi diversificati, al fine di assicurarne la sostenibilità sociale. Vanno in questa direzione le tecniche di "democrazia deliberativa […], basate sull'assunzione che le preferenze politiche non sono fisse, ma piuttosto soggette a cambiare sulla base di un discorso politico aperto ed inclusivo" (Baber 2009). È quindi in un quadro dinamico e plurale che si precisa il ruolo della pianificazione, in quanto strumento fondamentale del governo del territorio, ridefinito in Italia nel 2001 con la riforma del titolo V della Costituzione. Riforma - non ancora colta in tutta la sua portata - che dovrebbe consentire di ricondurre ad unità le azioni pubbliche di programmazione, pianificazione e gestione integrata di territorio, ambiente e paesaggio, vincendo le difficoltà derivanti anche dall'attuale affollamento pletorico di piani e programmi separati o comunque incoerenti (Peano, 2008, 2009). In questo quadro il ruolo specifico della pianificazione si estrinseca in tre missioni principali, da tempo evidenziate nel dibattito internazionale (IUCN 1996).
6.3. La missione regolativa della pianificazione
La prima missione tradizionalmente assegnata alla pianificazione, è quella di offrire strumenti per la regolazione, da parte delle istituzioni pubbliche di governo, dei processi di trasformazione territoriale. Regolazione di cui sembra esserci oggi più bisogno che in passato, a causa soprattutto della crescente complessità dei sistemi economici e territoriali¸ma che deve oggi attuarsi in contesti caratterizzati dalla rapidità e dall'imprevedibilità dei cambiamenti, dal pluralismo dei processi decisionali, dalla rilevanza degli "effetti rete" e delle interdipendenze trans-scalari. In tali contesti, la ricerca di forme più efficaci di regolazione, in particolare quando orientate alla "democrazia deliberativa", ha messo da tempo in crisi le tradizionali configurazioni normative, basate su sistemi rigidi di vincoli e disposizioni autoritative "a cascata". Tuttavia, la gravità dei processi di degrado ambientale e paesistico, delle perdite e dei rischi incombenti sul patrimonio culturale ha posto brutalmente sul tappeto l'esigenza di presidiare adeguatamente l'integrità dell'eredità territoriale, subordinando a tale esigenza prioritaria ogni ipotesi di trasformazione. Tale esigenza è stata ed è avvertita in modi diversi nei diversi contesti. Per esempio, si può notare che ancora nel 2008 l'IUCN, pur nel quadro di una crescente apertura verso forme flessibili e cooperative di gestione del patrimonio naturale, ha ribadito l'assoluta priorità della difesa della biodiversità in ogni categoria di area protetta. Analogamente, seppure in termini meno precisi, la Convenzione Europea del Paesaggio fissa l'obbligo di integrare le istanze di tutela paesistica in ogni politica settoriale suscettibile di influire sul paesaggio. Quanto al nostro paese, sotto il provvidenziale ombrello dell'art. 9 della Costituzione, il Codice del 2004 ribadisce diffusamente il ricorso alle prescrizioni vincolanti, accordando una sorta di (discusso) primato alla pianificazione paesaggistica nei confronti di ogni altro piano, compresi i piani dei parchi. È palese il rischio di riproporre un approccio vincolistico ormai impraticabile alla luce delle considerazioni sopra richiamate.
6.4. La missione conoscitiva della pianificazione
La seconda missione della pianificazione è quella conoscitiva. Anch'essa è stata tradizionalmente svolta dai piani, quanto meno in forme implicite o ancillari o meramente burocratiche, e spesso senza rapporti organici con le elaborazioni progettuali. Essa sembra oggi dover assumere contenuti e rilevanza assai più penetranti. L'elaborazione di un piano è anche e prima di tutto un "learning process" collettivo, che instaura una comunicazione multilaterale interattiva, di grande rilievo ai fini della sensibilizzazione, dell'auto-coscienza e dell'empowerment del governo locale. Essa risponde inoltre ad una esigenza crescente di "conoscenza regolatrice" (come dice Raffestin, abbiamo bisogno di conoscenze che guidino e sorreggano l'azione di regolazione). È il caso delle misure protettive richieste dal Codice per i beni paesaggistici, che presuppongono adeguati e specifici riconoscimenti di valore; ed è il caso dello stretto rapporto che si crea tra le interpretazioni strutturali di cui si è discorso e le attività "interpretative" che hanno assunto ormai grande rilievo nell'attività di gestione e nella stessa attività di pianificazione dei parchi.
6.5. La missione strategica della pianificazione
Ma soprattutto la produzione di conoscenza mirata svolge un ruolo essenziale nei confronti della terza missione assegnata alla pianificazione, quella di orientamento strategico della governance territoriale. Non ci si riferisce qui a quelle attività (definizione degli obiettivi e delle opzioni di fondo, esame di alternative generali, proposta di indirizzi di governo) che fanno parte, in forme più o meno riconoscibili e distinte, del tradizionale processo di piano; ma piuttosto alla produzione esplicita di visioni guida e di quadri strategici atti a costituirequadri di riferimento condivisi per le scelte relativamente autonome competenti ad una pluralità di soggetti pubblici e privati, operanti a livelli e in settori diversi. Al di là delle indicazioni scaturenti dalle esperienze di pianificazione strategica emerse da tempo a livello internazionale (Curti, Gibelli 1996), peraltro spesso divergenti, si vuole qui richiamare il ruolo cruciale che questa forma di pianificazione è chiamata a svolgere in vista dell'integrazione delle politiche per la natura e il paesaggio nei processi complessivi di pianificazione territoriale. Integrazione che deve misurarsi con grovigli complessi di conflitti, trade-off e spinte competitive, la cui composizione richiede confronti e negoziazioni trasparenti, sulla base di valutazioni esplicite delle poste in gioco e degli effetti che potranno prodursi nel lungo termine in funzione delle diverse strategie. In questa prospettiva, spetta all'attività conoscitiva, soprattutto alle interpretazioni strutturali di cui sopra, definire gli elementi negoziabili e i campi di negoziabilità, o in altri termini gli argini entro i quali possono flessibilmente svilupparsi le scelte strategiche.
6.6. Radicamento strutturale e "utopie concrete" di cambiamento
La dimensione strutturale e quella strategica sono in questo senso distinte e complementari.
La confusione tra le due, che traspare anche da talune legislazioni regionali, non pesa soltanto sulla chiarezza degli strumenti e delle procedure amministrative. Essa offusca la necessaria complementarietà e coerenza tra la ricerca del radicamento nelle specifiche realtà territoriali e i tentativi di anticipare il futuro, intercettandone le traiettorie evolutive e prendendo le distanze dal passato. Su questo rapporto, difficile e problematico, si gioca anzi la sfida della territorializzazione delle politiche di tutela e di autentica valorizzazione "integrata" del patrimonio naturale-culturale. In questa prospettiva integrata l'analisi critica della realtà in atto e dei processi di de-strutturazione e di de-territorializzazione che l'hanno prodotta, sfasciando con manovra concentrica città, territori e paesaggi, non lascia dubbi sulla necessità di avviare nuove strategie di vera e propria ri-territorializzazione.
Ma occorre scegliere tra strategie volte a salvare le "eccellenze" (concentrando risorse e cure sulle bellezze naturali, i paesaggi eccezionali, i monumenti celebri, i trèsors d'art e i Siti Unesco, in una logica che il Codice del 2004 ancora ribadisce); e strategie volte piuttosto a salvare e migliorare il capitale territoriale e i sistemi di valori diffusi che strutturano il territorio e ne ricostruiscono l'immagine identitaria. È interessante notare che la critica alle strategie delle "eccellenze" in nome di un'opzione conservativa articolata per tutto il patrimonio ha trovato recentemente riscontro nella contestazione alla politica dei "grandi restauri" che garantiscono agli sponsor elevati ritorni d'immagine ma succhiano risorse alle istanze diffuse (Ginzburg, Settis 2009). È una scelta che, come si è visto, si pone a tutti i livelli, ma che sempre più investe quel "terzo spazio" tra il locale e il globale (Sassen 2009) che i processi di de-nazionalizzazione lasciano scoperto. Ed è soprattutto in questo spazio che si profila la sfida all'Europa e alle sue istituzioni, impegnate nella ricerca di una nuova "identità europea" basata sulla diversità. Raccogliere questa sfida è anche la condizione per tentare di recuperare, nel vivo delle esperienze concrete, la tensione utopica del progetto di territorio.

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Roberto Gambino
Lectio Magistralis tenuta nell 'Aula Magna dell a Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, Palazzo del Valentino 8 ottobre 2009