Siamo distanti dalla sua casa, lontani dal "suo" tavolino all'antico Caffè San Marco di Trieste, città cerniera divisa tra Mitteleuropa e area illirico-balcanica, che la bora spazza e, spazzando, richiama costantemente all'incertezza del variare dei venti che sferzano o accarezzano comunità e società, cercando di deviare i destini della storia, invitando a essere solidi e a scegliere gli appigli più sicuri.
Siamo nella sua seconda città.
«Nel 1957, appena finito l'esame di maturità, ho lasciato Trieste per venire a Torino, l'altra città della mia vita, senza la quale non sarei cresciuto, non avrei scritto. Trieste era la cultura del disincanto, del disagio della storia. Torino la città di Gobetti, di Gramsci, della cultura della storia, dell'impegno.
Torino, in quegli anni, viveva a fondo le trasformazioni sociali che investivano l'Italia e il loro significato politico-culturale, costringeva a tenere gli occhi aperti sulla realtà.
Torino è stata per me un'esperienza fondamentale; certamente senza Torino non sarei cresciuto. A Torino ho imparato la libertà, a pensare, ad avere un rapporto intenso, ma libero, con la mia stessa città natale.
Senza l'esperienza torinese, probabilmente non avrei scritto.
In quel momento, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, Torino raddoppiava la sua popolazione, diventava un centro pulsante, nel bene e nel male, di quello che accadeva nella vita del paese. Costringeva a stare al passo con la storia. Fu così che a Torino, in un fervore che intrecciava e intreccia lavoro e amicizia, nacque e si consolidò una vasta parte della rete di affetti che costituisce, ancora oggi, la mia vita».
Claudio Magris ha vissuto a Torino gli anni dell'Università e, subito dopo, qualche tempo come assistente. Poi, dopo anni in Germania, ha trascorso nel capoluogo piemontese otto anni come professore ordinario.
Un legame consolidatosi con la casa editrice Einaudi, presso la quale pubblicò il suo primo saggio, a ventiquattro anni.
Qui ha fatto amicizia con Bobbio, Primo Levi, Venturi, Galante Garrone... «Tra Torino e Trieste, non voglio e non posso scegliere; sarebbe come se mi dicessi di dire quale dei miei due figli, Francesco e Paolo, amo di più, domanda che non può avere naturalmente una risposta. Io vivo, in un certo modo, in una specie di città cubista, in un incastro di Torino e Trieste, come se Torino avesse il mare, come se Torino e Trieste fossero unite da quel famoso ponte che, nella prima guerra mondiale, molti credevano unisse Trento e Trieste ...».
Sono motivazioni così radicate che lo fanno ritornare spesso nella capitale piemontese.
Quando cerco di raggiungerlo telefonicamente all'Hotel che rappresenta da anni la sua base qui, è già scappato: «Uscito alle otto», mi rispondono con gentilezza.
Non mi resta che appellarmi all'amico Guido Davico Bonino che nel pomeriggio sarà suo interlocutore nella conferenza di presentazione del libro "Alfabeti", all'Unione Industriali.
Con la consueta gentilezza, annunciata da un sorriso discreto sostenuto da occhi brillanti, Guido, ospitandomi a casa sua, mi sarà indispensabile pedina in questo inseguimento che dura da tre anni. Sono andato a dama e lo devo a lui.
Alla fine Claudio Magris è qui.
Sono salito con lui sul taxi, che ci conduce a casa Davico Bonino, insieme ai padroni di casa.
Per Claudio la meta è Angelo, l'ultimo arrivato in casa di Lauretta, figlia di Guido. L'ha conosciuta bambina, a lei è legato da affettuosa, straordinaria amicizia. Giustamente il primo spazio è per il loro incontro.
Poi giunge il tempo anche per me.
Lo ritrovo proprio lì, spiaccicato a terra, mentre gioca con il piccolo Alessandro.
Che non sa che a fargli le moine è un candidato al Premio Nobel.
Questa prima immagine di Claudio Magris è in perfetta sintonia con ciò che avevo immaginato leggendo le sue emozioni raccontate sulla carta stampata dei tanti libri.
La riconferma, appena ritrova la posizione eretta -e mi sento davvero un intruso che interrompe l'azione- arriva quando ci sediamo sul divano per la nostra chiacchierata: è il "tu" che, subito, mi propone.
L'infinito viaggiare nei microcosmi, a volte alla cieca, verso altri mari o lungo la storia infinita del corso del Danubio o dei tanti altri itinerari possibili che rappresenta, diventa occasione concreta di dialogo.
Mi serve un respiro profondo, prima di cominciare.
Poi il ritmo diventa normale, perché Claudio ti porta in una dimensione confidenziale e ti viene quasi da chiedere scusa o di dire grazie per essere ammesso nelle spire profonde del suo intimo sentire.
Claudio Magris, scrittore e germanista, nato il 10 aprile 1939 a Trieste è uno dei più apprezzati saggisti contemporanei e tra i più acuti e geniali studiosi di letteratura mitteleuropea, erede della grande tradizione culturale triestina.
Proprio Trieste è la sua prima città. La linea retta Torino Trieste di cui ci ha parlato è simbolica, per una complessità che Magris ha sempre ricercato e ancora ricerca, mai stanco, mai convinto delle tante verità della vita Due città di frontiera tanto dissimili ma altrettanto stimolanti per il suo genio di studioso e letterato. Da un lato le suggestioni dell'impero asburgico, l'incrocio tra la tradizione slovena, friulana, mitteleuropea, indipendentismo e irredentismo; dall'altro le influenze e le contaminazioni di Francia, l'impegno per l'Unità d'Italia, la modernizzazione tecnologica, la sintesi tra cultura cattolica e operaia. In comune le traversie della dittatura, il riscatto della Liberazione, la frontiera
«la frontiera era vicinissima a casa mia, ed era la «cortina di ferro», che divideva il mondo in due parti. Al di là iniziava un mondo sconosciuto, minaccioso, terribile, il mondo dell'impero di Stalin. Poi con la rottura degli anni Cinquanta tra Tito e mosca era diventata qualcos'altro: terre che avevano fatto parte dell'Italia, ed erano poi passate alla Jugoslavia alla fine della seconda guerra mondiale.
Incontravo la cortina, il confine, quando andavo sul Carso a fare passeggiate: Da allora sono affascinato da ogni genere di confine, quelli tra territori, nelle città, i confini linguistici, nazionali religiosi, psicologici, quelli all'interno di ogni persona».
Enrico guarda la curva dell'orizzonte, l'orlo mobile ma distinguibile della mandria, il pezzo di terra coperto dagli assi di legno che appartiene all'aperto della prateria e al chiuso della capanna; da ogni parte confini separano e uniscono tante cose diverse. Enrico è sul confine, coma a Gorizia, ma non sa da quale parte, in quale cerchio, se alla frontiera sudorientale della felicità o a quella nordoccidentale della morte. Tante volte, quando andavano in giro nei boschi verso il Friuli, si perdevano e non sapevano se avevano varcato senz'accorgersene il confine con l'Italia, se erano già dall'altra parte.
Un altro mare
"D'altra parte, c'è il fascino (...) dell'incessante metamorfosi del mondo che è l'essenza stessa della vita, la quale dunque consiste in un continuo superamento dei confini. Mi hanno sempre affascinato i confini tra i colori e il loro cancellarsi nelle sfumature del trapasso; spesso il trascolorare, specialmente in riferimento all'acqua, diviene la cifra stessa del senso della vita e della poesia che cerca di afferrarlo.
Dall'altra parte.
Considerazioni di frontiera
Ma qui vogliamo provare a meglio capire un'altra dimensione di Claudio Magris.
Quella dell'amico del Carso, della montagna, del bosco, del mare, dei fiumi, della natura, degli animali: «Da bambino arrivai a compilare 332 schede sulle razze di cani. A quel tempo avevo curiosità di leggere di informarmi, di capire e le enciclopedie erano l'avventura, l'esplorazione, la strada verso la conoscenza».
D'altra parte anche la generazione cui io appartengo, si abbeverò alle voci di "Conoscere", l'Internet che si faceva guardare, sfogliare, per rivelare ogni giorno saperi antichi sedimentati nella storia universale.
«Ho sempre avuto un rapporto molto intenso con la natura, anche se sono un cittadino.
Sento questo rapporto soprattutto con il mare, ma anche con il bosco.
Ne ho un bisogno fisico, mi serve un interscambio. Questa necessità risale alla mia infanzia, segnata dalle passeggiate sul Carso.
La mancanza che oggi soffro di più, dovuta ai viaggi frequenti, è proprio l'abitudine di ogni domenica, a Trieste: camminare liberamente sul Carso, italiano, sloveno, la Selva di Tarnova, i sentieri
Oggi, arrivando il sabato e andando via il lunedì, non mi è più possibile. Non si tratta di una cancellazione totale, ma di una rinuncia all'abitudine di cui sento molto la perdita.
Ma nel rapporto con la Natura, quello che ho vissuto più profondamente è quello con il bosco, con il Monte Nevoso, di cui parlo anche in "Microcosmi".
La foresta non ha parola, è indistinzione originaria che riattira nel suo grembo tutte le cose e le forme, è Artemide che non si può guardare e non si può dire, Vita che dissolve vite e non conosce linguaggio che articola l'incessante metamorfosi (
) Dove comincia la foresta? Le porte sono invisibili, eppure si avverte chiaramente quando si aprono e si richiudono, quando si è dentro o fuori dal bosco, a prescindere dal fatto d'essere circondati o meno dagli alberi. (
) Il bosco è insieme esaltazione e cancellazione di confini. Una pluralità di mondi differenti e contrapposti, pur nella grande unità che li abbraccia e dissolve. Anche la luce, nella foresta, ha tagli netti, che creano paesaggi diversi e, nello stesso istante, tempi diversi. C'è la luce nera nel folto più profondo e quella verde subacquea sotto una volta di rami che s'intreccia sopra il sentiero; mentre nelle radure d'oro è ancora giorno alto, trasparenza leggera, pochi metri più in là, nella selva, è già sera, un'ombra greve.
Microcosmi
«Per me, per i miei figli, per Marisa la natura erano queste radure, ognuna delle quali ha un nome e in cui osservavo i piccoli cambiamenti di ogni anno, gli alberi che invecchiavano, poi marcivano, ma resistevano».
Alcuni alberi, intorno, sono vecchi; un grande platano straripa in protuberanze e bitorzoli, mammelle cascanti, escrescenze nodose. La vecchiaia è un'esuberanza caotica; vita che cresce distruggendo la sua forma e muore per eccesso.
Microcosmi
«Che dire poi degli animali. Ho passato notti sugli alberi per vedere i mitici orsi che non sono mai riuscito a incontrare. Ma ho visto i lupi, ben due volte, una a distanza molto ravvicinata, i cinghiali. Ho nutrito un interesse e una passione straordinaria verso queste bellezze che la natura mette a nostra disposizione».
Ci sono i ghiri e i ricci, con la loro bonarietà casalinga. Gli uccelli, tanti uccelli; a sera il loro canto comincia di colpo, tutti insieme, un vento che si leva tra le foglie in un assordante stormire che dopo un po' non si avverte più, come il fragore di una cascata. Qualche gabbiano, risalito dal mare, volteggia spaesato, a volo lento. La civetta, sempre su quel platano cavo, è una vecchia zia, fastidiosa quando si fa sentire e di cui si sente la mancanza quando tace. Ma c'è soprattutto il falco. Almeno dicono che ci sia, che venga giù dal Carso a cercare prede. Dicono anzi che sia un gheppio e lo hanno visto con la testa grigia bluastra, il petto giallo macchiettato di nero e la coda con la punta bianca. Qualcuno lo ha visto fare lo spirito santo, quasi immobile nell'aria muovendo appena le ali.
Microcosmi
«Per molte ragioni. Intanto un senso di fraternità nei confronti di questi nostri lontani cugini oscuri, gli animali, che rappresentano un problema metafisico insolubile.
Poi queste radure, che mi danno un senso della vita, della Creazione. Vedere arrivare il mattino, con il bosco che lentamente, lentissimamente esce dalla notte, infonde proprio, veramente l'idea della Creazione: "Fiat lux
". Di queste cose ho sempre sentito un bisogno fisico».
La foresta, intorno, è già nera. Tra le foglie passa un respiro largo, il bosco è una tana che accoglie e protegge, inesauribile, e fa sentire che nessuno è più importante e duraturo della foglia che marcisce o della bacca calpestata; quel frinire squittire scricchiolare è una legge imparziale e non c'è da turbarsi se un un grillo improvvisamente tace.
Microcosmi
«Il mare poi, dopo gli affetti fondamentali, è stato proprio la cosa più importante della mia vita. L'eros è impensabile senza il mare. L'amore è legato al mare. Sia concretamente nella mia storia, ma anche in generale».
Se c'è un tema di vastità, d'intensità, di pregnanza simbolica immensa incommensurabile, è proprio il mare.[
] Thomas Mann una volta ha scritto che il mare, che vedeva a Lubecca avanti a sé, era stato fondamentale per la sua scrittura, anche se poi in fondo ne ha scritto poco per la musica, per il ritmo della sua lingua.
Il mare logora, smangia, consuma.
Ma l'epico mare insegna la libertà di riconoscersi sconfitti, pur lottando; libera dalla smania di affermazione e di vittoria che è il segno dell'ossessione di impotenza. E quel fulgore talora troppo intenso è puro invito ad abbandonarsi, a dormire; quella grande acqua spenga la sete, aiuta a capire che non è poi troppo tragico se la risacca cancella l'orma sulla spiaggia.
Nella bellezza del mondo, scrive Simone Weil, la necessità bruta diventa oggetto d'amore; nelle pieghe che la forza di gravità imprime alle onde del mare, che pure inghiottono navi e naufraghi, c'è la bellezza dell'obbedienza a una legge. Sulla Levrera la bellezza è perfetta, ma vorrebbe essere solo felicità, libertà da ogni forza di gravità, vento che scioglie il torrido e l'afa. Questa bellezza assoluta è l'armonia con una legge o una grazia strappata a ogni legge?
Microcosmi
«I miei primi ricordi di infanzia sono mia madre e con lei ogni giorno al mare.
Trieste ha questo vantaggio su Torino, l'accessibilità al mare, oggi un quarto d'ora in auto, allora mezz'ora di tram, e si è in questa spiaggia libera a Barcora, un mare pulito che si apre.
Io sento fisicamente che siamo fatti di acqua, veniamo dal mare come specie, impariamo a nuotare prima ancora che a camminare nelle acque materne prima della nascita.
Sento il mare anche, certo, come lo ha sentito la grande letteratura dei Conrad o dei Melville, quale sfida e prova, ma lo sento ancora di più come grande abbandono, proiezione distesa.
Al mare non desidero nient'altro, non ho mete da perseguire non brucio la mia esistenza alla ricerca di qualcosa. Questo è il bello della natura».
Il mare, infido e sconfinato, è lo spazio di questa avventura senza remore, che intacca leggi e altari e per la quale non c'è nulla di proibito; è lo spazio della storia sacrilega. Lo spirito greco è questa mobilità, infida come il mare.
(
) Sull'epico mare invece nasce Afrodite, ci si conquista -scrive Conrad- il perdono dei propri peccati e la salvezza della propria anima immortale, ci si ricorda di essere stati dèi.
Danubio
«Al mare ancora di più, ma anche nel bosco.
Io non sono uno sportivo, non mi interessa raggiungere vette anche se sono salito sul Tricorno che è già una bella fatica. Non mi interessano questi aspetti. Nel bosco mi piace andare avanti e indietro, girare, scoprire sentieri, vedere che si aprono su nuovi punti di vista su nuove scoperte.
Nel mare sento questo abbandono nelle braccia del mondo, perfino nei momenti oscuri.
Ricordo gli ultimi mesi quando Marisa stava molto male, stava per morire e mi diceva "Vai, fallo anche per me".
E allora andavo, uscivo dall'ospedale e trovavo questo senso di liberazione ritrovavo il fiato.
Il mare è una grande prova dell'anima.
puro presente della vita che basta a se stessa e non si consuma verso mete da raggiungere, nell'ansia di fare ... ma è felicità senza mete, confidenza vitale che rende le civiltà rivierasche più limpide e gentili.
Microcosmi
La pacificazione. Torna il respiro trattenuto, quasi soffocato, dall'angoscia.
La storia di un rapporto fatto di sentimenti profondi, che la vita ha tragicamente interrotto.
Ma che rimane, come ogni cosa che conta. Parliamo della sua compagna, Marisa Madieri, «con cui sono stato sposato trentadue anni, la cui morte ha mutilato in misura essenziale la mia vita stessa».
Magris ha lo sguardo che rivela un contatto al di fuori del tempo reale, un istantaneo collegamento di pensiero forte e rinnovato; poi riprende il filo della conversazione.
«Non amo la competizione, le gare, le sfide, anche perché trovo che la vita sia talmente piena di sfide inevitabili. Nel momento in cui si occupa un posto -è il peccato originale della vita- lo si sottrae a un altro. Lo stesso fatto di esistere sottrae qualcosa a qualcun altro. In questo senso credo molto nel peccato originale.
Già nel momento in cui vinsi il posto per il Collegio universitario, ovviamente a scapito di un altro, mi resi conto che vincere o perdere è la cosa peggiore che ci sia.
Sottrarmi alle competizioni fu la logica conseguenza, a cominciare dalle gare campestri che boicottavo presentandomi vestito in abito scuro, con il "Times", comprato all'edicola della stazione, sotto il braccio».
Sembrano parole fuori dal tempo. Infanzie reclamate che il mondo di oggi sempre più basato sulla competitività non pare nemmeno più in grado di ascoltare, altro che accogliere.
Eppure rimane quella l'unica àncora di salvezza per un mondo alla deriva che ha necessità di ritrovare l'arcaico legame con la natura di cui fa parte e che ogni giorno rinnega.
«L'abbandono, come dormire nel bosco, rappresenta un senso importante della vita.
Quando mi manca troppo mi sento quasi in astinenza, mi pervade un senso di asfissia».
A tanti manca questa esperienza, così naturale e a portata di mano da non essere presa in considerazione da chi cerca emozioni o scariche di adrenalina nell'artificialità preconfezionata, sia essa nella droga dell'on line, sia nelle sostanze che pervadono -e infine distruggono- la mente.
«Personalmente sono convinto che tutto sia natura, non ci sono cose innaturali; i funghi velenosi sono naturali come i mangerecci, così come le distese di Plutone, solo che noi non potremmo viverci. Anche ciò che esce dai tubi di scappamento è una combinazione di elementi che appartengono alla Natura; ma se li respiro muoio.
Sono molto goethiano: tutto è natura anche quello che sembra negarla.
Per questo non condivido certe posizioni fondamentaliste come quelle di chi non vorrebbe assumere i farmaci, convinto che il proprio corpo possa farcela da se. Il problema è quello di chi nega la natura fatta per la nostra specie».
La scienza - o meglio certi atteggiamenti degli scienziati - possono essere criticati solo in nome della scienza stessa e senza tradire la sua logica. Oggi invece essa è aggredita da una stupida ondata irrazionalista. Forse per reazione al suo potere - e a quello tecnologico - dilagano una fumisteria superstiziosa, vagamente e falsamente spiritualeggiante, una paccottiglia magico-esoterica che ricorda quella scatenatasi alla fine del mondo antico, epoca per tanti versi simile a quella che stiamo vivendo. La fiducia nella ragione e nel progresso viene assalita da un apocalittico catastrofismo ecologista che, prendendo le mosse da reali e crescenti preoccupazioni fondate su reali motivi, le affronta e le svisa in chiave eccitata, misconosce il merito avuto dalla tecnica nel lenire tanti mali e miserie dell'umanità e vagheggia una pretesa natura autentica violata dall'artificio tecnologico. (
)
Pure il progresso scientifico e tecnologico deve essere oggetto di critica razionale; se è invece oggetto di cieca e intollerante fede, non è più scienza.
Lo sviluppo scientifico e tecnologico solleva, nel suo corso, problemi e anche pericoli ed è progresso solo se, continuando a procedere, ritorna al contempo di continuo sui suoi passi per superare, con gli strumenti da esso elaborati, quelle insidie create dal suo cammino.
L'inquinamento esiste, il traffico pone difficoltà reali, la bioingegneria può modificare l'umanità in misura insospettata, il divario tra ricchezza e miseria può assumere dimensioni spaventose. L'uomo comune è legittimamente angosciato dalle prospettive che crede vagamente di intravvedere; teme che le centrali atomiche esplodano, vede incombere dovunque nubi di diossina e pone domande. È facile agli scienziati -dai fisici ai biologi agli economisti- rispondere con sussiego a quelle domande formulate spesso ingenuamente e goffamente, sciorinare tutti i rimedi previsti, elencare le misure di sicurezza ignote all'uomo della strada, spiegare come e perché è assai improbabile che una centrale nucleare salti in aria. Ma quelle rassicurazioni talora supponenti rischiano di essere assai poco scientifiche e di diventare un oppiaceo, che ottunde l'attenzione razionale alla realtà. È legittimo difendere nel complesso il nucleare, ma è irragionevole e dogmatico negarne le possibili implicazioni terribili, come se paventare che possa succedere un disastro fosse solo frutto di ignoranza.
Qualcosa invece ogni tanto purtroppo succede: Chernobyl, le radiazioni in Giappone, il cianuro nel Danubio, i morti di Seveso e di Marghera, gli allarmi del «padre» di Dolly. È poco scientifico scordare che esistono pure l'incidente imprevedibile, la fragilità dell'essere umano, una macchina che si deteriora, o che vi possano essere, nel caso delle manipolazioni genetiche, sviluppi e conseguenze che forse oggi la scienza non è in grado di prevedere e che essa, se è vera scienza, deve rendersi conto di non essere forse ancora in grado di prevedere. Mai come oggi gli scienziati sono chiamati a esercitare il dubbio scientifico, a interrogarsi sulle conseguenze e sul senso del loro lavoro. Talora sembrano riluttanti a farlo, prigionieri di un fideismo non meno ottuso di quello degli inquisitori di Galileo.
La storia non è finita
Ecco perché mi sembra più corretto parlare di cose naturali, che non della Natura in sè che potrebbe anche volere la nostra scomparsa; di conseguenza dovremmo parlare di distruzione della Natura che è per noi vitale.
Quando scrivo tutto il giorno -attività che è diversa, ad esempio dalla pittura che in qualche modo consente di mettere le mani nei colori, di avere un contatto fisico, di fare pasticci, proprio perché a che fare con un qualcosa di rigido che è la pagina di carta- allora provo veramente bisogno di vento, di sentire erba, di mettere la testa per terra, in un rapporto proprio sensuale con la natura. La cosa che la mia vita di viaggio mi rovina di più è proprio l'abitudine -che cerco comunque di difendere, ma ci riesco meno- di vagabondare. Quello che mi interessa è anche la storia della natura, la vita che germoglia, che scorre. Si tratta di una passione antica che coltivo da quando ragazzino, sono stato in Abruzzo a girare a piedi. Sono stato e sono ancora un bravo camminatore, mi piace proprio camminare, camminare tanto; mi è impensabile passare l'intero giorno chiuso in casa, ho bisogno di uscire; a Trieste in mezz'ora sono al mare: mi piace sentire gli odori della marina, i putridi come i freschi, ne ho bisogno.
Forse sono anche le mie radici contadine. Mio nonno di parte paterna si era inurbato venendo da Malnisio un paese all'interno del Friuli.
Malnisio è incastonata fra i campi di granoturco; a tarda estate le pannocchie son trofei d'oro barbaro, ma il paese, quasi immemore di una secolare e recente povertà, è florido e riposato, l'antica maledizione di lavorare la terra ha forgiato una gente solida che l'ha vinta. La campagna che inizia a pochi metri è lontana, la miseria contadina è stata spazzata via come lo sterco di mucca dalle strade. <Adesso è la vista, il senso nobile, a cogliere nel decoro delle case la realtà del paese, che una volta si faceva riconoscere e distinguere attraverso suoni odori e sapori, un ciuffo di canne che la sera, dietro un viottolo, si piegava con un fruscio più forte che altrove, una strada più battuta di altre dalle bestie che tornavano dal pascolo, un grande mucchio d'erba tagliata che spargeva un odore più acre, la calda polpa della pannocchia che si disfa in bocca, la fragranza del clinton e il gusto un po' più duro del fragola tagliato col bacò, vendemmiati dietro casa.
Microcosmi
Andare dal nonno era proprio il "monter" un salire, " come nei romanzi francesi "si saliva a Parigi
"-cita-. Da ragazzo ci passavo delle estati e lì ho imparato ad amare l'odore della stalla, del concime, andare in giro con l'asino, il rapporto con gli animali... Il fratello di mio nonno che poi è rimasto al paese era l'unico ad avere una piccola biblioteca in cui trovavo Victor Hugo, I misteri di Parigi, Guerino il meschino, un'enciclopedia, Il conte di Montecristo e I promessi sposi. Dico sempre che i maestri della mia vita sono stati Paolo Bozzi e il mio amatissimo porcellino d'India, che mi ha insegnato a guardare le cose. Mi piace molto mettermi per terra, guardare le cose dal basso...
Ecco spiegato l'atteggiamento del tutto naturale con cui si è mostrato all'inizio della nostra chiacchierata. Un istinto a vedere le cose con curiosità da molti punti di vista.
Come il desiderio di scoperta dell'orso: «La ricerca dell'orso è stata una storia bellissima.
Ci interessava molto anche se ci prendevano in giro, mettersi sulle piste, trovare le tracce, cercando quasi di gareggiare in una sfida impossibile».
Neanche Boris riusciva a portarci sul posto giusto nel momento giusto, Boris il guardiacaccia col suo nobile viso, che di orsi ne aveva visti a decine, una volta anche quattro tutti insieme, e a Pales, quando spargeva il granoturco o metteva qualche carcassa come esca , aveva un appuntamento garantito con l'orso. (
) Un anno dopo l'altro senza l'orso; tutt'al più qualche orma fresca o un escremento recente.
Microcosmi
C'è una Natura primigenia che sfugge, sembra restia a farsi scoprire, sino a divenire sempre più inafferrabile: «Abbiamo passato anni a vuoto nella ricerca di questo orso, con moltissimi appostamenti sentendone la presenza ma senza mai vederlo, mentre altri lo incontravano andando in automobile».
Ma gli orsi, per anni e anni, li vedevano tutti gli altri, anche quelli che andavano in giro per i boschi facendo chiasso e spargendo immondizie; solo noi, che conoscevamo anche le tane dove le bestie andavano in letargo o partorivano, non li vedevamo mai e le estati si susseguivano scandite da quest'attesa e da questa ricerca e soprattutto dal loro fallimento».
Microcosmi
Le esperienze giovanili sono state formative nell'esercizio di un contatto con la natura, totale, pienamente vissuto, senza intermediazioni, liberatorio rispetto all'esperienza cittadina che risulta troppo avvolgente, protettiva, artificiosa rispetto alla frequentazione pratica dell'universo che sta al di fuori delle abitazioni e del rassicurante ambiente artificioso della città.
Per Claudio Magris sono, insieme all'immediato rapporto con il mare, le gite in montagna l'esperienza formativa più importante, a cominciare dalle terre alte del Centro Italia.
«In Abruzzo ci andai perché un carissimo amico ancora oggi uno dei tre amici più preziosi- aveva là delle prozie. Avevamo sedici anni e progettammo di attraversare a piedi il Gran Sasso, con grandi patteggiamenti con queste signore che si sentivano responsabili nei nostri confronti.
Per guadagnare la fiducia ci atteggiammo a grandi esperti di alpinismo, pur non essendo mai stati alpinisti. Riguardo ai nostri progetti di salita sulle montagne del Gran Sasso, giungemmo a un compromesso.
Saremmo partiti solo con il bel tempo.
La mattina della partenza pioveva e fu lì che mi inventai, pronunciando ad alta voce: "O che fortuna, c'è il grigio stabile di montagna il tempo prediletto dagli alpinisti, non quel sereno traditore
".
Sentendo questo rassicurante "grigio stabile" ci lasciarono partire.
Fu una bellissima traversata: la foresta di Arapietra, montagne di fiori
Dormimmo sopra Teramo, da due pastorelli -uno si chiamava Sabatino- poi scendendo e facendo autostop fummo raccolti dal direttore dell'Albergo Jolly che ci ospitò gratuitamente nelle soffitte.
Ricordo che al mattino il mio amico Gianni Gabrielli che era di famiglia abbiente, ritenne di segnalare la nostra dignità: prese un foglio e una busta che intestò all'On. Avv. Enrico De Nicola. pregando poi gli addetti dell'albergo, di imbucarla.
Ho di quell'avventura un ricordo bellissimo, la traversata della foresta di Arapietra, la salita al Corno Grande, la notte in sacco a pelo, la discesa verso Campo Imperatore, ad Assergi per un altro pernottamento poi, ancora a piedi, il tratto fino all'Aquila».
Non fu che un esordio, per una passione destinata ad essere onorata per tutta la vita.
«La meta dell'anno successivo, in quattro, fu la Maiella. La partenza fu esasperata dal duro colpo inferto alla cassa comune dalla cifra che uno dei miei compagni investì per il siero antivipera.
Confesso che insieme all'amico Gabriele ci sfiorò l'idea di iniettare l'intera costosa dotazione di dosi, interamente al responsabile dell'incauto, esagerato, acquisto.
Ma l'episodio fu velocemente e serenamente superato. Fu una rilassante esperienza, completamente immersi nella natura, in cui incontrammo pochissime persone. Ad esclusione di Pietracamela dove c'era un albergo -noi scegliemmo una modesta locanda-, nei vari paesini l'arrivo di forestieri rappresentava ancora un avvenimento che sollecitava capannelli di gente incuriosita: ci davano da mangiare e da dormire gratis.
Vi era molta curiosità. Ricordo che in una delle località in cui ci fermammo sentii da uno di questi capannelli giungere la risposta alla domanda sulla nostra provenienza: " Sono tedeschi dell'alta Italia"
Salimmo alla Maiella poi ci fermammo al Blockhaus, la pietra dei briganti, che porta una scritta del tipo "Qui era il regno dei fiori poi giunse Vittorio Emanuele e divenne il regno della miseria" ("Nel 1824 nacque Vittorio Emanuele. Prima del 1860 era il regno dei fiori, oggi è il regno della miseria". Ndr) vecchia testimonianza della reazione alla lotta al brigantaggio.
Poi visitando la Grotta del Cavallone, "La figlia di Iorio", (ispirò il pittore Francesco Paolo Michetti visita la che ne trasse gli scenari della tragedia pastorale "La Figlia di Jorio" di Gabriele D'Annunzio, ndr), ci spacciammo per speleologi.
La scuola triestina era famosa e questo dava un certo tono. Ma io non avevo allora, né ebbi mai, alcuna confidenza con la speleologia
»
La passione destinata a durare nel tempo per chi ha fatto del viaggio, fisico o simbolico, l'obiettivo della sua vita, strumento per saziare la necessità di conoscenza, il bisogno di incontrare e incrociare destini.
il viaggio -nel mondo o sulla carta- è di per sé un continuo preambolo, un preludio a qualcosa che deve sempre ancora venire e sta sempre ancora dietro l'angolo; partire, fermarsi, tornare indietro, fare e disfare valigie, annotare sul taccuino il paesaggio che, mentre lo si attraversa, fugge, si sfalda e si ricompone come una sequenza cinematografica, con le sue dissolvenze e riassestamenti, o come un volto che muta nel tempo.
Il viaggio sempre ricomincia, ha sempre da ricominciare, come l'esistenza, e ogni sua annotazione è un prologo; (...)Solo con la morte, ricorda Karl Rahner, grande teologo in cammino, cessa lo status viatoris dell'uomo, la sua condizione esistenziale di viaggiatore.
Viaggiare dunque ha a che fare con la morte, come ben sapevano Baudelaire o Gadda, ma è anche un differire la morte; rimandare il più possibile l'arrivo, l'incontro con l'essenziale, come la prefazione differisce la vera e propria lettura, il momento del bilancio definitivo e del giudizio. Viaggiare non per arrivare ma per viaggiare, per arrivare il più tardi possibile, per non arrivare possibilmente mai.
Viaggiare è una scuola di umiltà, fa toccare con mano i limiti della propria comprensione, la precarietà degli schemi e degli strumenti con cui una persona o una cultura presumono di capire o giudicano un'altra.
Viaggiare insegna lo spaesamento, a sentirsi sempre stranieri nella vita, anche a casa propria, ma essere stranieri fra stranieri è forse l'unico modo di essere veramente fratelli. Per questo la meta del viaggio sono gli uomini.
L'infinito viaggiare
«Un viaggio straordinario fu la traversata del Tricorno, il Triglav. montagna sacra degli sloveni che feci insieme a un mio anziano collega croato di Zagabria, Zdenko S&Mac255;kreb, alpinista, partendo da Aljazev Dom. Ricordo la discesa su Dolic, l'incontro con i Sette Laghi. A partire dal quinto ho fatto il bagno in ogni lago fin giù a quello di Bokin».
Anche nella tua storia privata c'è dunque, forte il senso del viaggio fisico, ma anche mentale, di scoperta
«È un vagabondare in cui la direzione prevale sulla meta, mi lascio distrarre per scoprire; questo mi è sempre piaciuto.
Non considero viaggio il puro trasporto. Non è un viaggio andare a New York per una conferenza. Se poi lì trovo il modo di andare a zonzo, di attaccare bottone, allora può trasformarsi in viaggio».
Il viaggio è la scoperta, del territorio come degli uomini
«Sì, ed è anche l'incertezza»
"Danubio", sotto questo profilo è emblematico.
«L'idea l'ebbe Marisa. Quando eravamo alla frontiera dell'Austria con la Slovacchia, quel Danubio che scintillava
un momento felice, di abbandono totale
Era settembre; un'armonia: il fiume che scintillava e non si distingueva dal luccichio delle alte erbe, senza più capire dove il fiume finiva
Un momento di assoluta armonia, tra amici, in cui ci si sente in sintonia con il fluire della vita e della natura. Così distanti da quando si dice: "Va bè un altro cerchio nel tronco dell'albero e chi se ne frega
".
Improvvisamente una scritta "Museo del Danubio" e noi eravamo lì sotto il cartello ci sentivamo parte del museo mancava solo la didascalia "gitanti degli anni Ottanta".
Fu allora che Marisa disse: "E se andassimo avanti così, bighellonando, fino al Mar Nero
".
Nacque così l'idea di fare quel viaggio che si svolse poi in varie puntate, avanti e indietro, su e giù, girando per quattro anni».
In fondo anche Microcosmi è un viaggio, pur diverso, che comprende l'esplorazione di se stessi.
«Ancor più digressivo perché grazie alla scala ridotta ci si può permettere di vagabondare senza nemmeno dover superare distanze di avvicinamento.
Penso alla collina torinese. Ogni sera dormivamo in un luogo diverso, prima dall'albergo di Chieri, poi a Madonna della Scala, poi Pecetto, Revigliasco...».
Il pensiero, lo scritto, nasce e si sviluppa a partire da una situazione vissuta.
«Si tratta di un viaggio che poi la scrittura ti combina, non tanto nel senso di inventare quanto di alterare. Come prendere una lente e puntarla su Revigliasco facendola diventare dieci volte più grande di Pecetto anche se non è così nella realtà. è quel che mi permetto di fare.
Nel viaggio si stabilisce un rapporto tra la conoscenza, i dati sensibili e gli strumenti per misurarla, con il loro rigore, però tenendo proprio conto del fatto che già l'atlante da cui parto è fasullo perché rappresenta in maniera piatta ciò che in realtà è curvo.
Sono assolutamente convinto che la stessa cosa valga per il tempo che i neurofisiologi ci dicono essere un contenitore, come l'utero.
Quant'è grande l'utero? Dipende. Quando contiene un bambino di otto mesi a una dimensione, quando non contiene alcuna nuova vita ne ha un'altra, ben più piccola.
Questo non significa che noi non si debba utilizzare gli strumenti di misura, ma con la consapevolezza che siano comunque finzione. Questa è la mia scrittura, un movimento, cui la natura offre tanto, con l'alternarsi del giorno con la notte, i cicli delle stagioni
Sono viaggi ma ovviamente sono ben diversi dalla guida turistica e ben diversi da un viaggio in Germania per partecipare a un grande evento».
Nella tua scrittura, nella dimensione spazio-ambiente dei tuoi viaggi inserisci la storia, il paesaggio di sentimento fatto dagli uomini famosi passati alla storia quanto dalle persone umili.
«Intanto il paesaggio non è fatto solo dalla natura e dagli animali, ma ci siamo anche noi. Detesto l'ecologismo antiumanistico per il quale tutti hanno diritto di esistere tranne gli uomini; e che tutto sia naturale tranne le abitudini umane. Come gli uccelli fanno il nido così gli uomini hanno diritto di farsi una casa. Questo principio non ha nulla a che vedere con il fatto che poi ci sia un modi di fare le case che diventa distruttivo. Capita così anche con gli alimenti: è chiaro che se ho un litro di wisky e me lo bevo tutto allora è chiaro che mi fa male.
La mia idea del paesaggio è come quella di un volto. Bisogna approfondire, scavare, affondare, praticare un'archeologia del paesaggio. Cercare gli strati nascosti: come nel bosco troviamo sotto le ultime foglie cadute strati di foglie più antiche, come Schliemann che trovava una Troia sotto l'altra.
Naturalmente trovi vite umane, illustri o sconosciute. Ho sempre avuto il sentimento che la grande storia deriva da piccole storie. Proprio in questo senso, magari può sembrare anche grottesco, in Danubio ho fatto veramente una piccola ricerca, con scrupolo, per sapere quanto denaro avesse ottenuto il mugnaio Wammes dalla vendita delle brache per darlo alla chiesa.
Certo che l'ho fatto in maniera ironica e il dato in se non ha alcuna importanza. Come, in fondo, non ha nessuna importanza sapere se Goethe sia morto martedì 12 o mercoledì 13.
Però chi ha fatto la biografia di Goethe non lo può ignorare. La filologia, parola che contiene l'amore, riguarda tutti. Ogni sconosciuto ha diritto allo stesso rispetto con cui ci accostiamo alla biografia di Goethe. Questo non per falso egualitarismo, ma per il rispetto dovuto che ci induce a toglierci il capello davanti all'uno come all'altro.
Ovviamente diventa una lotta impari, però io sento molto questo atteggiamento.
Anche questo è natura, la ricerca delle tracce, come quelle che inseguivo da boy scout e di cui facevo i calchi. Certo non era importante sapere che di lì era passato l'asino, ma si trattava comunque di un'informazione, di una conoscenza».
Torna la passione per gli animali per gli altri animali, nostri fratelli.
«Ho sempre avuto grande simpatia per l'asino. Quello che chiamavo zio per via della grande differenza di età, anche se era mio cugino, aveva un asino, Morro, straordinario corridore, capace di essere più veloce di tutti i cavalli che erano in paese».
La vita si lascia incantare dai romanzi rosa e dai technicolor, preferisce i destini radiosi alla prosa della realtà e perciò è affascinata dai cavalli alle corse di Ascot piuttosto che dagli asini sulle strade di campagna.
Ma la poesia ha più genio della vita e sa cantare la maestà dell'asino. Un asino e non un purosangue di scuderia, riscalda Gesù nella stalla; Omero paragona Aiace, che salva le navi achee resistendo da solo all'assalto dei troiani, a un asino, la cui groppa sotto la soma e le batoste diviene grande come lo scudo di Telamonio. (
) La forza dell'asino ha l'attributo degli eroi classici, la pazienza, la tranquilla, umile e indomabile costanza che non recede dal proprio cammino e che s'innalza sullo scatto del nobile destriero
Danubio
La ricerca genomica che fa la mappa dei nostri geni, sta rivelando vicinanze con gli altri viventi, che sembrerebbero impensabile.
Le mappe genetiche ci riconciliano con un'appartenenza universale che sembrava solo ipotesi mistica, credenza religiosa.
«Noi siamo di fronte non solo al mistero della vita, del mondo, ma anche delle origini della conoscenza. Sono argomenti che mi interessano moltissimo là dove la frontiera di quella conoscenza è ancora in rapporto con l'esperienza sensibile. Fino alla teoria della relatività siamo ancora in questo rapporto comprensibile, come la teoria copernicana che riusciamo a percepire. Poi si entra nella necessità di fare un salto astratto in cui si perde il contatto con la Natura.
Per noi è difficile immaginare che il gatto di Schrödinger non sia né vivo né morto (Paradosso di Schrödinger NdR).
Amo molto la teoria dei colori di Goethe anche se è disastrosa dal punto di vista scientifico.
Indubbiamente ha ragione Newton e non c'è discussione. Ma è anche vero che vedo rosso o blu e non dei numeri che sono le lunghezze e le frequenze d'onda. Questo è vero ed è palpabile e non è che la parola blu sia più irreale dei numeri che rappresentano fisicamente il colore. Mi interessa molto questa evidenza sensibile».
Oggi viviamo in una dimensione di confusione nella quale si stenta a trovare parametri in grado di indicarci una corretta strada tra economia e sviluppo. Si rischia di ambire cose non necessarie e di trascurare cose indispensabili per vivere in maniera appagante il nostro viaggio terreno. Ci muoviamo in un tempo incapace di riconoscere i veri valori e tutti sembriamo alla ricerca di una illusoria felicità che dovrebbe esserci garantita da questa corsa sfrenata all'opulenza assicurata dal consumismo.
«Messo in moto il processo di avere più del necessario, arrestarlo implica una tragedia. Come se dicessi che ho mangiato due pastasciutte e me ne sarebbe bastata una al giorno. A larghi numeri c'è il rischio che milioni non abbiano più nemmeno una pastasciutta. Questo né l'aspetto terribile che imporrebbe correzioni, evitando però di buttar via il bimbo con l'acqua sporca. Per questo a volte diffido dell'ingenuità astratta E' molto difficile trovare un punto di equilibrio. Oggi non è sufficiente dare miliardi all'Africa, non si risolvono così i problemi perché dopo sei mesi si sarebbe nella stessa situazione antecedente.
D'altra parte dobbiamo renderci conto che non si può fare aziendalismo universale.
L'economia è una scienza importantissima, fondamentale, come la chirurgia, come la medicina.
Però non viviamo in funzione della medicina; non pensiamo al corpo di una bella ragazza immaginando di tagliarlo, anche se, nel caso in cui sia necessario un intervento chirurgico, questo sarà possibile.
Il bosco morente e malato è il simbolo di un morbo che devasta pure l'ecologia della mente e del cuore, aggredendo una culla della cultura tedesca. I fascicoli dedicati allo Schwarzwald dalla rivista "Merian" celebrano serafici il bosco primordiale, le saghe delle ninfe di Mummelsee, il lago incantevole, e l'incontaminata malia del Belchen, il monte canuto e abbagliante, ma nella stessa vetrina della libreria altri libri mostrano orride fotografie di abeti depilati e devastati, boschi stitici e sghembi sulle rive di quel lago e sui fianchi di quel monte. Le réclame dei luoghi di villeggiatura continuano a celebrare pace e salute, ma da qualche tempo non vantano più "la ricchezza di ozono dell'aria boschiva". La Selva Nera, come dice la documentazione diffusa dalla Lega per l'ambiente e la protezione della natura in Germania, è in testa alle classifiche del deterioramento ecologico, che del resto vede in tutta la Germania ben un terzo dei boschi seriamente rovinati. Il re dello Schwarzwald, l'abete bianco che affascinava Turgenev, è la grande vittima, qui come altrove, al pari del pino, che perde anch'esso dovunque i suoi aghi
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Eppure l'economicismo imperante vorrebbe attribuire valutazioni in termini di profitto a ogni azione dell'umano agire. La cultura deve produrre ricchezza, così come la scuola, l'università.
«L'allora ministro Luigi Berlinguer, con l'enfasi della cattiva coscienza dei comunisti che avevano trascurato l'economia, parlò dell'università come di un'azienda. Io gli feci osservare che ciò non era vero perché, anche dal punto di vista rigorosamente liberista, occorre distinguere tra le iniziative che nascono per il profitto e altre che, pur avendo bisogno come ogni cosa di profitto, non nascono con quello scopo. Una fabbrica di scarpe non nasce per il bene dei piedi della gente, bensì per il profitto; poi Smith ci spiega che, grazie alla famosa mano invisibile "peraltro da lui nominata solo tre volte" ne scaturisce un bene comune. Una famiglia invece, non nasce con lo scopo del profitto; naturalmente ha bisogno del profitto, di guadagnare, per potre vivere, per poter mantenere i figli e così via. Ma non è un'azienda; non ha finalità economica, anche se ha bisogno di una base economica.
L'Università non nasce per fare soldi, anche se deve essere amministrata oculatamente. Trasformarla in un'azienda, improvvisamente, è una insensatezza, perché manca una tradizione in questo senso. Improvvisarsi economisti, se non lo si è, è il massimo torto che si possa fare all'economia. Perché è come se io, adesso, mi convincessi di essere un grande imprenditore e mi mettessi a farlo. Dopo sei mesi sarei ridotto alle mendicità, perché non lo so fare, mentre avrei smesso di fare l'unica cosa che so fare e che mi dà da vivere.
Anche l'Italia non può essere concepita come un'azienda.
Per la patria si può anche pensare di morire, per un'azienda, con tutto il rispetto, non si può proprio pensare di morire
Se si parte con il pensiero del cliente, allora bisogna mettere in conto che il cliente ha sempre ragione. Se vado al ristorante e ordino spaghetti con lo zucchero, il cameriere può cercare di dissuadermi, ma poi me li deve portare.
Se vale questo principio, lo studente cliente allora ha sempre ragione e se io chiedo chi ha scritto il "Faust" e lui mi risponde Manzoni devo dirgli: "in generele, no, ma per Lei, si....".
Naturalmente lo studente ha dei diritti, ma non per questo è un cliente; è un'altra cosa».
Qui viene fuori il Magris impegnato anche in politica, al punto di entrare in Parlamento.
«Il mio impegno politico è tragico e comico ed è coinciso con un periodo della mia vita tremendo. Ho fatto una scelta contro la mia natura, che non è quella di rappresentare; una scelta in nome della virtù contro ogni principio di piacere, scelta che non va mai fatta.
Poi ho fatto ciò che ho potuto e mi è costato molto, perché facevo una cosa che mi interessava, che rispondeva alla mia passione politica, ma per cui non ero adatto.
Ho fatto ciò che potevo, ma senza divertirmi e bisogna, invece, anche divertirsi nelle cose che si intendono fare. E' inutile, chi soffre di vertigini, non si cimenti nell'alpinismo.
È comunque un'esperienza che non rimpiango affatto e che ricordo, oggettivamente, con interesse e gratitudine.
Al di là di tante cose, ricordo il momento in cui riuscimmo a far cadere il cosiddetto "Decreto salvaladri", pur in un rapporto numericamente difficile.
La circostanza era poi anche comica. Credo di essere stato un caso unico al mondo nella storia dei partiti, in quanto ero il rappresentante di un movimento di cui ero anche l'unico iscritto. Neppute Trockij immaginò una democrazia diretta così.
Fu così che il Presidente Scalfaro fu costretto a convocarmi per ben due volte.
La mia esperienza politica fu il risultato del fatto che nel momento della "scesa in campo" di Berlusconi a Trieste ben cinque gruppi politici del tutto eterogenei che andavano dai vecchi liberali conservatori a Rifondazione comunista me lo chiedessero. Ho avuto la sensazione di non poter dire di no. Loro non potevano allearsi ufficialmente, sparirono e si inventò un movimento apposta per me. Ma dimenticarono di iscriversi. Così io risultavo l'unico iscritto che mi presentò come candidato alle elezioni, alle quali votarono per mè molti cittadini che avrebbero altrimenti votato o per il partito popolare o per il PDS e così via. In realtà, io vinsi soltanto perchè la destra si era spaccata in due, e aveva presentato due candidati diversi, la somma dei cui voti era ban più alta di quella dei miei. ma ero il candidato che aveva ricevuto
Al di là della mia esperienza sono estremamente preoccupato dai destini della democrazia in sé, al di là di chi governa. Il problema è come conciliare la democrazia dunque il controllo e la discussione- con la velocità delle trasformazioni; ci sono situazioni che esigono risposte immediate e che vengono discusse nelle sedi deputate penso alle Commissioni- e dopo sei mesi si giunge a una decisione. Ma nel frattempo la situazione è già radicalmente mutata. È come aver discusso sul petrolio e nel frattempo non lo si usa più perché c'è una nuova fonte energetica che l'ha soppiantato.
Lo vedo come un grande problema cui non si può rispondere in maniera autoritaria ma non so quale possa essere la soluzione».
Da chi ama la natura, la frequenta sino all'immersione fisica e psicologica totale, cosa può essere detto a proposito delle politiche di tutela dell'ambiente e del territorio attuata attraverso i parchi e le aree protette, magari con un riferimento proprio al "tuo" amato carso? «Il Carso va tutelato, non c'è il minimo dubbio, anche perché è ancora in buone condizioni.
In questi casi ho sempre paura che la tutela rischi di imbalsamare troppo le situazioni che si vogliono proteggere. Ci penso spesso per il mio Nevoso.
Da ignorante, mi preoccupa, insieme alla tutela, anche che rimanga quella libertà zingaresca, un po' anarchica, di poter andare dove vuoi.
So che è pericoloso perché può anche significare distruggere presenze naturali, calpestare i nidi
Ma mi spaventa l'idea di essere ingabbiato. Ho il senso che le mie passioni e le mie libertà debbono tenere conto degli altri, ma vorrei trovare la possibilità di conciliare le due cose.
Mi rendo conto di non avere basi specifiche su questo tema.
Per mancanza di cognizione tecnica mi rendo conto di non poterti dare una risposta sensata. Penso, infatti, che qualsiasi passione per essere espressa in maniera seria si deve basare su una sintassi, altrimenti è solo un mobile sospiro».
Un sasso cade nell'acqua e onde concentriche si allargano sempre più lontano fino a sparire, ma è solo la nostra vista debole che non le scorge più, da qualche parte esse sono.
Un altro mare
La scissione fra natura e cultura produce il disagio di quest'ultima, Nella cultura tedesca è almeno viva la coscienza del disagio e la nostalgia messianica di sanarlo
Danubio
Valter Giuliano
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