Anche Cancun, dopo Copenhagen, è passata.
E il risultato è stato analogo: rimandare il tempo delle azioni concrete che ormai sono riconosciute come indispensabili per salvare il Pianeta che ci consente la vita.
Dritti, dunque, verso un collasso, forse irreversibile.
Se i provvedimenti già oggi considerati efficaci ma impraticabili -che comporterebbero il quintuplicare, ad esempio, del prezzo della benzina - non si ha il coraggio di praticarli, figuriamoci cosa accadrà alla data cui sono state procastinati.
Davanti a simili notizie non ci può che essere un commento: l'umanità ha deciso di essere, consciamente, irresponsabile rispetto al suo futuro.
Di fronte a questi scenari verrebbe da dire che la sopravvivenza delle aree protette italiane diventa poca cosa.
Per un Paese che comunque si conferma tra i meno attenti a una prospettiva di sviluppo ecosostenibile e che difende qualche posizione solo grazie alla recessione piuttosto che per politiche consciamente perseguite.
È un po' come la notizie del miglioramento della situazione negli incidenti sul lavoro che si alimenta dalla riduzione del lavoro.
Ma si sa che le statistiche non fotografano la realtà né, tantomeno sono la cartina a tornasole delle volontà politiche e delle conseguenti programmazioni che un paese dovrebbe attivare per dare risposte convincenti ai suoi problemi.
Siamo così scivolati al 41.mo posto tra i 60 Paesi industrializzati per ecosostenibilità e questo non è certo di conforto.
In questo desolante scenario diventa facile pensare che, probabilmente è questo il ragionamento (sich! senza applicazione alcune della ragione) che ha guidato le ultime altalenanti vicende dei parchi italiani, prima messi di fronte a uno scenario da morte annunciata poi, ad esecuzione in atto, salvati da spari a salve che non rassicurano affatto per il futuro visto che si sono alzate voci irresponsabili di personaggi che pure i cittadini hanno investito di cariche pubbliche, che reclamano la cancellazione delle aree protette nazionali e regionali definite inutili lusso.
Alla fine le cose si sono rattoppate e l'ossigeno vitale alla sopravvivenza -non alla vita veradelle aree protette nazionali è arrivato.
Per alcune Regioni l'emergenza asfissia non è affatto superata.
Ma non è questo il punto.
Il dramma sta nel fatto che la cultura generale di questo paese, al di là delle convinzioni politiche di parte -legittime e indispensabile nella dialettica democratica- sia culturalmente così debole da non condividere obiettivi che ormai sono patrimonio comune di tutto il pianeta. E se non lo sono in quella che è considerata la settima potenza economica del mondo, come pretendiamo che siano paesi in competizione per la crescita a scegliere la sobrietà dello sviluppo ecocompatibile, piuttosto che lo sfrenato liberismo economico condito da consumismo irresponsabile?
Perché per salvare il pianeta le nuove economie che si affacciano al benessere dovrebbero rinunciare alla massimizzazione dei profitti che il sistema capitalistico, vincente sul piano globale, insegna?
Se non sono le società opulente a dare il segnale e ad ammettere che la loro via allo sviluppo è stata sbagliata e rischia di tagliare loro le gambe, perché mai Cina, India o qualsivoglia altro Paese emergente dell'Africa piuttosto che del Sud est Asiatico, dovrebbero non seguire le tracce di chi li ha preceduti?
Sarà così. E se sarà così, la competizione internazionale condannerà ben presto le attuali sette potenze industrializzate alla povertà, e poi chi avrà conquistato il nuovo potere a cederlo, magari nei confronti di qualche stato africano, in un ciclico passaggio di irresponsabilità verso la fine della nostra specie.
Catastrofismo? Può darsi.
Pessimismo? Può essere.
Ma la constatazione dei comportamenti dei nostri concittadini, in questi anni, non ci autorizzerebbe a immaginare altri scenari.
A meno che, con forza, si tornino ad occupare gli spazi non solo del territorio e della natura da difendere, ma anche quelli della cultura e della coscienza, per costruire nuove generazioni consapevoli e responsabili, che siano in grado di prendersi in mano il loro futuro giubilando una gerontocrazia ferma ai parametri di due secoli fa e che non solo non ha saputo assorbire, ma non è neppure stata in grado di conoscere le conquiste fondamentali del pensiero scientifico della seconda metà del Novecento e che continua a ragionare con parametri abbondantemente superati che nessuna consapevolezza avevano delle questioni ecologiche.
Di questo costante ignorare le questioni che il sapere derivato dalla ricerca scientifica, mette a disposizione è intrisa pressocché l'intera classe politica.
Colpevolmente. Perché chi si candida a guidare le società umane dovrebbe avere il senso di responsabilità di essere aggiornato sulle frontiere di ogni sapere. Solo in questo modo può essere guida autorevole ed efficace.
Lo sono i Presidenti dei nostri parchi e aree protette?
Da lì dobbiamo cominciare a porci la domanda.
E batterci, se non è così.
I "poltronifici" fanno male anche a noi.
Diciamo loro di smettere.
Ma è evidente che l'esame lo dobbiamo fare a ogni livello.
Altrimenti succede come a Cancun. Che chi ha in mano le sorti del pianeta ammette, senza penalità alcuna, le proprie incapacità ad affrontare i problemi e sposta gli obiettivi più in là.
Ma la speranza che più in là ci sia qualcuno più consapevole e più preparato è remota se la selezione della classe politica rimane quella che è.
Proprio per questo il rischio dello scioglimento della strato di permafrost -già annunciato per tutta la regione alpina, ove i danni sulla stabilità idrogeologica si annunciano devastanti- dei territori siberiani con la conseguente liberazione in atmosfera del metano imprigionato sin dall'ultima glaciazione, moltiplicherà l'effetto serra e i danni da anidride carbonica.
Ma a Cancun hanno fatto finta di non sapere.
Fino a quando potremo fingere?
Molto dunque resta da fare.
Per i parchi e le aree protette, diventa questa la vera sfida.
Conservazione la biodiversità che difendono ma anche partecipare a una strategia di informazione gravemente insufficiente. Che su questi temi è ancora restia ad affrontare con serietà le questioni fondamentali, cullandosi con qualche incursione episodica su vicende il più possibili distanti o buttandole sulla cronaca contingente.
No. Per un futuro sostenibile e uno sviluppo durevole è necessaria una svolta ben più
impegnativa.
Per gli Stati, per l'economia e la finanza, per ognuno di noi.
In questi anni abbiamo cercato, anche attraverso queste pagine di informare, per formare una coscienza civica prima ancora che ecologica.
La crisi ha colpito anche noi e il 2010 ci consente quest'unica uscita.
Il futuro rimane incerto e rischia di cancellare anche questa voce.
Ci auguriamo di trovare soluzioni per continuare un contatto e un dialogo che riteniamo più che necessari, indispensabili, a rafforzare una comunità che ha rappresentato e rappresenta la punta di diamante nella ricerca del futuro che tutti noi immaginiamo e che vorremmo altri sapessero immaginare con noi.
Valter Giuliano
rivistaparchi@parks.it
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