PARCHI | |
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali NUMERO 59 |
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I Parchi Nazionali come beni collettivi |
intervento al convegno "Cento anni di parchi nazionali in Europa e in Italia. Storia, problemi e prospettive", Parco Nazionale della Sila, 12 febbraio 2010 Le riflessioni di una lunga esperienza vissuta in prima persona sulla nozione di parco, figura che si propone come archetipo e metafora di un patrimonio territoriale e ambientale che rappresenta un vero e proprio bene collettivo che necessita di nuove cure dopo le stagioni dei tradimenti e delle incertezze per configurare nuove prospettive e nuovi traguardi. Premessa Il mio intervento si divide in tre parti. Nella prima parte indagherò sulle ragioni per cui da oltre un secolo in tutto il mondo si fa ricorso alla figura del parco nazionale per tutelare aree anche molto diverse tra loro. Ciò mi porterà a considerare questa figura come archetipo e come metafora. Nella seconda parte cercherò di giustificare, alla luce delle precedenti considerazioni, il titolo che mi è stato affidato: i parchi nazionali come beni collettivi. Nella terza parte trarrò alcune conclusioni: parlerò di tradimenti, di nuove mete, del compito che ci attende. Quanto dirò è il frutto, ancora acerbo, di riflessioni che da qualche tempo vado svolgendo, grazie anche, e forse soprattutto, alle esperienze che ho avuto la fortuna di fare prima in Abruzzo poi nei Sibillini. Spero che questo frutto possa maturare con il contributo di coloro con i quali ho condiviso e continuo tuttora a condividere, sia pure dall'esterno, la meravigliosa avventura dei parchi. Parchi e coscienza profonda: un'utopia concreta Il 6 febbraio 1923 l'on. Antonino Anile, originario di Pizzo Calabro, persona di grande valore umano e culturale e politico di rilievo nazionale1, presentava alla Camera dei Deputati un progetto di legge per la istituzione di un parco nazionale nella Sila. Il progetto era il frutto dell'impegno di alcuni studiosi (già nel 1919 il prof. Fridiano Cavara, Direttore dell'Orto botanico di Napoli, aveva auspicato l'istituzione del Parco della Sila) e di un gruppo di "anime elette" (a esse si riferiva Antonio Latessa in un volumetto stampato a Catanzaro nel 19242) che possiamo considerare parte di quel movimento per la difesa delle bellezze naturali sorto in Italia a cavallo tra 800 e 900 e considerato da Luigi Piccioni come il primo movimento italiano per la tutela della natura3. Influenzati da ciò che stava accadendo in America, in Africa, in Asia, in Australia e in alcuni paesi europei e sull'onda dell'entusiasmo provocato in Italia dalla nascita dei Parchi nazionali del Gran Paradiso e d'Abruzzo, quei precursori auspicavano l'istituzione «nella Sila delle Calabrie» del terzo parco nazionale italiano che avrebbe trasformato un territorio da sempre abbandonato nella «Svizzera del Mezzogiorno d'Italia»4. A seguito della presentazione del progetto veniva costituita un'apposita commissiona di studio la quale, a conclusione dei lavori, presentava il 16 settembre 1923 a Catanzaro un documento nel quale si affermava solennemente che nel territorio silano esistevano «tutti gli elementi necessari ed essenziali per la creazione di un Parco Nazionale»5. Negli stessi anni - a conferma dell'esistenza, se non di un movimento organizzato, di un clima culturale diffuso in tutta Italia - un giovane nuorese, Antonio Monni, che sarebbe diventato uno dei protagonisti della politica sarda del 900, iniziava ad affrontare la questione del Parco nazionale del Gennargentu per la quale si sarebbe impegnato lungo tutto l'arco della sua vita collaborando a quello che probabilmente possiamo considerare il primo progetto sul Parco che, diffuso nel 1925, riscuoteva notevoli adesioni6. Ma era soprattutto nel corso della sua non breve attività parlamentare che egli manifestava il suo impegno appassionato per l'istituzione del parco, a partire dal 21 ottobre 1954 quando, divenuto senatore, illustrava in Senato un ordine del giorno, da lui presentato con autorevoli colleghi tra cui Emilio Lussu e Antonio Azara, che così terminava: «essendo noto che in nessun'altra Regione, come in Sardegna, trova giustificazione, sotto ogni aspetto, la istituzione di un parco nazionale a tutela ed incremento della fauna e della flora, fa voti al Governo perché, d'intesa con la Regione sarda, sia istituito, nel comprensorio montano centrale della Sardegna, il Parco nazionale sardo»7. Più volte il sen. Monni sarebbe tornato a perorare la causa non solo del suo Parco della Sardegna, che egli riteneva con giustificato orgoglio «il più bel Parco di tutta l'Italia», ma anche di altri parchi e in particolare - è importante sottolinearlo in questa sede - del Parco della Sila 8. Ho voluto ricordare questi episodi rimasti nell'ombra sia perché riguardano il Parco che oggi ci ospita sia soprattutto perché sono espressione significativa del lungo cammino per l'istituzione dei parchi nazionali in Italia stamani ripercorso efficacemente da Luigi Piccioni. Di tale cammino un'altra tappa è rappresentata oggi dalla legge che prevede l'istituzione dei primi quattro parchi nazionali in Sicilia, regione oltre tutto particolarmente gelosa della propria autonomia e delle proprie competenze: i Parchi nazionali delle Egadi e del litorale trapanese, delle Eolie, dell'isola di Pantelleria, degli Iblei. La legge è del 2007 e proprio in queste settimane il Ministero e le istituzioni locali stanno effettuando le perimetrazioni provvisorie che dovrebbero precedere l'emanazione dei decreti istitutivi. A questo punto sorgono spontanee alcune domande: qual è il legame tra Yellowstone e la Sila? Qual' è, in Italia, il nesso tra le spinte per l'istituzione di parchi nazionali che si ripetono ciclicamente fin dagli anni venti, anche nei periodi di "glaciazione", secondo l'espressione di Luigi Piccioni? Come si spiega questa persistenza del ricorso alla figura del parco nazionale in periodi così diversi della nostra storia recente e come si spiega in particolare l'esplosione di parchi nazionali che si è avuta dopo la legge quadro, in epoca perciò di piena affermazione delle autonomie locali? Perché a uno stesso istituto, cioè al parco nazionale, vengono assegnate finalità diverse e addirittura contraddittorie: protezione di fauna e flora, ma anche caccia 9; ricerca di pace e di silenzio, ma anche rottura di millenari isolamenti e affluenza turistica 10; godimento spirituale, ma anche sviluppo sia pure sostenibile? Perché in tutto il mondo la qualifica di parco nazionale viene attribuite ad aree tanto diverse da rendere problematico l'inserimento di questa figura nelle classificazioni internazionali delle aree naturali protette e in particolare in quella dell'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura11? Infine perché il parco nazionale ha rappresentato fin dall'inizio un ideale, un sogno, addirittura una fede? 12 La risposta è, a mio avviso, nel significato che ha assunto e continua ad assumere la figura originaria: la finalità per cui era stato istituito il Parco Nazionale di Yellowstone (public use, resort and recreation) coglieva e continua a cogliere un elemento fondamentale presente nella coscienza profonda di ogni persona, al di là delle pressioni dell'industria turistica che sarebbero state decisive per il provvedimento istitutivo di quel parco secondo quanto ci ha detto oggi James Sievert, al di là delle differenze anche molto forti tra parchi nazionali come configurati nei vari paesi e al di là dei limiti che il modello originario presenta e che sono stati efficacemente illustrati da Tonino Perna nel libro che egli ha scritto sulla sua importante esperienza nel Parco Nazionale dell'Aspromonte 13. Nella coscienza profonda di ciascuno di noi vi è la ricerca del contatto con la natura, che è ricerca delle proprie radici e perciò di se stessi; vi è l'aspirazione alla felicità che è fuga da una realtà opprimente nella quale si svolge il vivere quotidiano, ma nello stesso tempo, e in significativa contraddizione, è impegno a costruire una realtà diversa per la quale il rapporto con la natura nella sua autenticità e semplicità sia valore paradigmatico; vi è il desiderio del rifugio, dell'isolamento, ma nello stesso tempo la volontà di intessere relazioni interpersonali autentiche; vi è la tensione verso beni da godere intimamente, ma senza volere escludere gli altri perché si ha coscienza dell'appartenenza di questi beni alla collettività; vi è la consapevolezza dell'inesistenza di barriere naturali perché la natura non ha divisioni, le sue dinamiche non conoscono il concetto di confine e i cosiddetti confini naturali (montagne, crinali, fiumi, valli) altro non sono che luoghi e perciò espressione di continuità; vi è infine, conseguenza inevitabile, l'aspirazione al superamento di ogni confine e di ogni conflitto: di qui la missione del parco nazionale, la sua vocazione che è planetaria e pacifista 14. L'interprete politico, che, se è veramente tale, sa leggere la complessità del reale, coglie questo elemento profondo: nel coglierlo lo traduce sul piano istituzionale, collegandolo all'archetipo e declinandolo in maniera differenziata a seconda dei tempi e dei luoghi. Così facendo compie, senza rendersene conto, un'operazione potenzialmente rivoluzionaria: politicizza la natura; il rapporto tra la persona e la natura diventa elemento di cui la politica - l'alta politica - deve tenere conto. Sotto questo aspetto il parco nazionale non si contrappone né al parco regionale né agli altri tipi di aree naturali protette. Nel segno della politicizzazione della natura il parco nazionale diventa simbolo e metafora: simbolo di tutte le aree naturali protette o da proteggere; metafora di un nuovo modo di far politica che pone al centro il rapporto tra la persona e la natura, che trova il fondamento nei valori ideali insiti in quel rapporto e ne relativizza gli aspetti economici, che, proprio in nome di quei valori, oggi ha, come vedremo, il compito di introdurre una nuova grande questione, quella della decrescita. Ecco perché il parco nazionale rappresenta un'utopia: è un'utopia che può diventare, e in parte forse lo sta già diventando, concreta. Malgrado i tradimenti della politique politicienne ai quali accennerò alla fine. L'utopia istituzionale Ora invece occorre vedere se e come in Italia questo elemento profondo - il rapporto della persona con la natura - sia entrato nel dato normativo e sia stato acquisito a livello istituzionale; se e come, pertanto, quell'utopia possa rappresentare anche un'utopia istituzionale 15. La risposta è nella legge quadro sulle aree protette (legge n. 394 del 1991). Le aree protette sono istituite e gestite «al fine di garantire e di promuovere, in forma coordinata, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale del paese»: così recita il primo comma dell'art. 1. Nella sua sintesi questa espressione scolpisce la vera filosofia della legge e delle aree naturali protette. Non è agevole individuare la portata dei termini conservazione e valorizzazione anche perché essi non possono essere interpretati con metodologie comparabili. La conservazione della natura appartiene al vocabolario delle scienze ecologiche; la valorizzazione è invece termine del linguaggio politico e di conseguenza, anche se non mancano tentativi da parte delle scienze economiche di calcolare su base scientifica il valore del patrimonio naturale "conservato", essa risente della contingenza e della soggettività proprie di quel linguaggio. Pertanto, se possiamo essere d'accordo nel definire la conservazione come il complesso delle politiche e delle attività dirette a porre rimedio alla diminuzione della biodiversità dovuta a cause antropiche, la valorizzazione pone delicati problemi ermeneutici. Innanzi tutto la valorizzazione del patrimonio naturale è concetto diverso dalla valorizzazione delle attività produttive compatibili prevista dal quarto comma dello stesso art. 1: la prima è finalità fondamentale di un'area protetta lo afferma appunto il primo comma - mentre la seconda può essere promossa. Due esempi: la ricerca scientifica valorizza un'area protetta, ma non è attività produttiva; l'attività d'impresa (si pensi a un'impresa informatica) svolta all'interno di un'area protetta può essere attività produttiva compatibile, ma non viene necessariamente svolta per valorizzare il patrimonio naturale dell'area. La conseguenza è che si può valorizzare il patrimonio naturale di un'area protetta anche senza promuovere attività produttive compatibili, senza promuovere neanche quelle attività quali il turismo e le produzioni tipiche che hanno acquistato un ruolo centrale sia nella gestione quotidiana dei parchi sia nella iniziativa promozionale che ruota intorno a questi. Collegato al patrimonio naturale, il termine valorizzazione acquista allora una portata precisa che non è interpretabile in termini meramente economici: come ha affermato anche di recente la Corte costituzionale (sentenza n. 12 del 2009), l'ecosistema, e cioè il patrimonio naturale, è valore in sé e come tale deve essere considerato (non a caso il secondo comma dell'art. 1 fa riferimento al "valore naturalistico e ambientale"). E valore in sé e nello stesso tempo è espressione e sintesi di una pluralità di valori ideali - individuali e collettivi, antichi e nuovi (e tra questi ultimi soprattutto la responsabilità verso le future generazioni) - che giustificano ulteriormente la finalità di conservazione. Al complesso di questi valori si ricollegano direttamente e inscindibilmente le specifiche finalità contemplate nel terzo comma dell'art.1, comprese quelle che una lettura superficiale potrebbe ricondurre alle attività produttive compatibili e che invece sono strettamente strumentali alla valorizzazione del patrimonio naturale inteso appunto come valore ideale e che proprio per questo sono necessarie. Così le attività agro-silvo-pastorali tradizionali sono diverse da eventuali attività agricole che, estranee al territorio, potrebbero essere sperimentate in un'area protetta purché compatibili: le prime sono legate alla cultura del territorio e come tali costituiscono valori che devono essere conservati; le seconde sono solo possibili. Così pure le attività ricreative si differenziano nettamente dalle attività produttive e anche dal turismo, solitamente considerato attività ricreativa: l'aggettivo "ricreative" non rinvia al concetto di produzione (di beni o di servizi), ma si collega a quel godimento spirituale - appunto ricreazione o ricreatività - che rappresenta un'esigenza fondamentale della persona e che proprio in quell'archetipo è finalità fondamentale. Il rapporto tra conservazione e valorizzazione si esprime allora in termini di inscindibilità allorché si tratta dei valori ideali contenuti nel secondo e nel terzo comma dell'art. 1. Allorché invece si tratta delle attività di cui al quarto comma, queste non assurgono a valori da conservare, ma rappresentano meri strumenti di carattere economico che in alcune aree (quelle di riserva integrale, cioè le zone a dei parchi) sono addirittura vietate, in altre aree (in particolare nelle zone b e c) possono essere eventuali, mentre sono promosse solo nelle zone d, se compatibili. In conclusione: se l'istituzione e la gestione delle aree protette hanno come finalità fondamentale la valorizzazione del patrimonio naturale; se con questa espressione il legislatore ha inteso riferirsi al complesso delle politiche e delle attività che hanno al centro il rapporto tra la persona e la natura e conseguentemente i valori ideali che questo rapporto esprime; se la legge quadro contiene una normativa tendente a regolare, e perciò a esaltare, questo rapporto; se infine questa stessa legge tende a dar vita - come tutti convengono - a un vero e proprio sistema di aree protette che rappresenti non già un aspetto eccezionale, e perciò marginale, del governo del territorio, ma un elemento di grande rilevanza sul piano quantitativo e soprattutto qualitativo: tutto ciò significa che nel nostro ordinamento è ormai presente quel fatto potenzialmente rivoluzionario che è dato dalla "politicizzazione" della natura. Si può allora veramente parlare di utopia istituzionale. Di questa utopia la rappresentazione simbolica è il parco nazionale, non in contrapposizione alle altre aree protette, ma considerato alla luce di quell'archetipo da cui comunque, consapevolmente o inconsapevolmente, il legislatore è stato influenzato. Beni comuni o collettivi? Tutto ciò occorre tener presente quando si parla dei parchi nazionali come beni collettivi. Occorrerebbero in proposito una serie di precisazioni preliminari, a partire da quelle di carattere semantico: beni comuni o collettivi? In questa sede non interessa una distinzione tecnicamente precisa: qualunque aggettivo si voglia scegliere - e qui scelgo quello che è mi è stato proposto da Luigi Piccioni - l'importante è che esso valga a distinguere i beni a cui intendiamo fare riferimento sia dai beni individuali sia da quei beni la cui appartenenza, indistinta e impersonale, è propria delle tradizionali res communes omnium, le quali - pur nella innegabile distinzione tecnico/giuridica - troppo spesso nella realtà hanno finito per essere considerate res nullius. Altra questione preliminare riguarda il fatto che assai spesso i parchi nazionali, e in generale le aree protette, insistono su terre di proprietà privata. A parte la considerazione che vi sono parchi e aree protette, anche di grande rilevanza, dislocati interamente o in gran parte su terre demaniali o comunque di proprietà pubblica oppure su terre gravate da usi civici, le considerazioni che cercherò di fare si pongono a un livello diverso rispetto al regime di appartenenza privata delle terre. Né interessa qui affrontare la questione se la natura deve essere considerata soggetto o oggetto, questione legata a concezioni generali diverse che si possono esprimere nei termini - che si pretendono contrapposti - di antropocentrismo e di ecocentrismo. Il punto di partenza è un altro. Se il parco nazionale si fonda sul rapporto persona-natura è evidente che la natura rappresenta il bene con il quale tutte le persone, cioè l'intera collettività, si pongono in relazione. Ma la natura è concetto astratto, non è bene materiale, è invece sintesi concettuale di beni materiali; quel rapporto natura-persona vive infatti sulla base di elementi registrabili dai sensi: suoni, odori, paesaggi, fauna, flora, acqua, terra. Occorre allora incentrare l'attenzione sulla terra perché, come subito vedremo, rappresenta l'elemento più significativo. Tale elemento pone due problemi preliminari: cosa si intende per terra; qual è il nesso tra la terra e il parco nazionale. Terra è concetto complesso che ha molteplici significati: è il pianeta sul quale viviamo, è la parte solida che emerge dalle acque e si contrappone al mare, è uno degli elementi considerati dagli antichi filosofi greci accanto ad acqua, aria e fuoco, è la parte superficiale della crosta terrestre che contiene gli elementi nutritivi del mondo vegetale, è la "roba" di Mastro Don Gesualdo, è il luogo d'origine (la mia terra); in economia è uno dei fattori della produzione, in diritto è il fondo rustico oggetto delimitato di diritti. La terra a cui intendo fare riferimento è la terra feconda: fattore della produzione, ma prima ancora della vita animale e vegetale, della vita di ciascuno di noi; è l'elemento che fonda il paesaggio (a ben vedere non c'è paesaggio senza terra); nella sua materialità la terra è diversa dall'acqua, ma a essa non si contrappone: la terra accoglie nel suo seno fiumi, laghi, altre zone umide; nelle sue viscere si colloca il più grande serbatoio di vita; qualunque aggressione nei confronti della terra incide inevitabilmente sull'acqua e viceversa; l'acqua scorre, è fluida, ma la terra non è né inerte né immobile: anch'essa ha i suoi cicli, si modifica per effetto di eventi naturali e di usi antropici. Il nesso terra-parco nazionale è evidente. Se la terra è fattore della vita considerata nella sua complessità; se contiene quella risorsa straordinaria e anch'essa fattore di vita che è l'acqua; se è elemento che fonda il paesaggio, allora il parco nazionale - come qualsiasi area naturale protetta - è mera espressione istituzionale e perciò formale, del suo contenuto materiale: il parco si identifica sostanzialmente con la terra in esso contenuta e grazie a questa identificazione diventa esso stesso bene materiale, apprezzabile nella sua fisicità. Terra tra appartenenza, mercato, ideali ed etica Occorre a questo punto affrontare il problema di fondo che è quello della natura collettiva del bene terra e perciò del bene parco: il problema forse mi tradisce la mia deformazione professionale di giurista - è quello dell'appartenenza. La terra - questa terra - "appartiene" e tale appartenenza è la causa di vicende millenarie di straordinaria e drammatica importanza: si pensi alle lotte per la terra che hanno percorso la storia del genere umano, alle riforme fondiarie, all'espansione urbana nelle campagne, alle aggressioni della speculazione di ogni tempo e di ogni tipo e in particolare da noi allo scempio del Bel Paese, allo sfruttamento esasperato della fecondità da un lato e all'abbandono dall'altro, al degrado e oggi al fenomeno terribile della rapina delle terre africane - povere economicamente, ma ricche di fertilità - da parte delle grandi multinazionali e degli stati neocolonialisti. Anche se la storia e il diritto hanno esaltato il ruolo dell'appartenenza, la terra è, per le ragioni che si sono dette, valore in sé e non in quanto oggetto di appartenenza. Proprio in quanto valore in sé rompe il suo ruolo tradizionale di bene economico e si apre a un'interpretazione in chiave ideale, si configura, cioè, per usare un'espressione che sembrerebbe in contraddizione con la sua materialità, come bene ideale, scisso dal suo ruolo di fattore economico che pure è indubbiamente presente. Ma è possibile prescindere dal fatto che essa è strutturalmente produttiva perché feconda e che essa, comunque, ha valore d'uso e di scambio? Come contraddire questi elementi fattuali e funzionali che danno senso e giustificazione alla cultura economicistica dominante che vede la terra come bene ontologicamente patrimoniale? In realtà la patrimonialità non è mai criterio esaurientemente identificativo della vera natura della terra. Certo, la terra può avere valore di mercato, anzi una parte assai rilevante della terra ha valore di mercato. Ma il mercato fa riferimento solo ad alcuni aspetti, quelli più facili a essere individuati e interpretati, quelli più appetibili nella visione commercialistica, purtroppo dominante, dei beni. Vi sono invece altri aspetti che sfuggono al predicato della patrimonialità e contribuiscono a coglierne l'essenza più intima. Proprio perché è natura, è sede di vita, anzi è vita essa stessa, la terra non è interpretabile in termini patrimoniali. Come per il corpo umano, in passato oggetto di conquista e di compravendita (il corpo degli schiavi), così per la terra, oggi conquistata e compravenduta, si dovrà pervenire al riconoscimento della sua vera essenza di bene extra commercium sulla base di un percorso in qualche misura emancipatorio al termine del quale potrebbero forse configurarsi vere e proprie situazioni giuridiche, una sorta di diritti della terra. Tali diritti, in fondo, rappresentano l'altro faccia della medaglia di quell'etica della terra a cui ha fatto riferimento James Sievert nel suo odierno intervento. Esistono nella nostra realtà fattispecie concrete in cui la terra appare già oggi non come bene giuridico avente utilità economica, ma come bene diretto a soddisfare esigenze di natura ideale. Si pensi agli antichi beni collettivi o proprietà collettive - comprendendo con queste espressioni sia gli usi civici su terre altrui (private o pubbliche) sia i demani civici o domini collettivi (comunanze, partecipanze, regole, università agrarie, ecc.) - che ancora oggi riguardano complessivamente una superficie di circa cinque milioni di ettari16, pari a più di un quinto della superficie agraria italiana, e che si caratterizzano per il fortissimo legame, in gran parte rimasto intatto nei secoli, tra la comunità titolare e la terra e per gli elementi di sorprendente vitalità e di notevole dinamismo in esse presenti. In queste proprietà la terra continua a essere luogo di manifestazione e punto di incidenza dell'insieme dei valori delle comunità titolari che sono valori ideali. Si pensi alle terre incolte. Nel passato l'incolto era rappresentato dalla terra che poteva essere assoggettata alla produzione agricola ed era l'oggetto di rivendicazione dei ceti agricoli; nel presente l'incolto è la terra che non è più agricola e mai più lo sarà. A parte circostanze casuali e marginali in cui queste terre si affacciano al mercato, nella sostanza esse, anche se sono oggetto di imposizione fiscale collegata a un astratto reddito dominicale, non sono suscettibili di valutazione economica. Assumono invece valore ideale perché, sul piano individuale, rappresentano il segno di storie familiari e di legami atavici molto forti e, sul piano collettivo, costituiscono elemento del paesaggio per la tutela del quale la Costituzione italiana all'art. 9 e oggi la Convenzione europea offrono le basi giuridiche fondamentali. Si pensi in particolare alle terre destinate alla conservazione: da un lato le terre per le quali la conservazione è un dato istituzionale perché sono situate in aree protette, in aree demaniali o comunque in aree vincolate; dall'altro le terre sottratte a un uso economico e speculativo per volontà del proprietario sia pubblico che privato (ad esempio: le terre acquistate dalla Conservatoria delle coste della Sardegna, istituita con la l. r. n. 2 del 2007, oppure, per quanto riguarda le iniziative private, le oasi del Wwf o di Legambiente; all'estero casi particolarmente significativi sono rappresentati dal National Trust nel Regno Unito e dal Conservatoire de l'espace littoral in Francia (da cui la Conservatoria sarda ha preso ispirazione). In tutti questi casi la terra rileva per il suo valore ideale, non patrimoniale, e proprio in quanto tale è destinata alla conservazione: si giustifica pertanto - sia detto per inciso - la costruzione di una specifica categoria nell'ambito della proprietà che ho ritenuto di qualificare come proprietà ambientale 17. Ma può un bene che si colloca sul piano ideale formare oggetto di proprietà? La proprietà non è categoria squisitamente economica, come sembrerebbe dedursi dalla storia dell'istituto e, sul piano normativo, dalla disciplina del codice civile vigente - che di quella storia è il punto di arrivo - e dalla collocazione nella Costituzione all'interno dei rapporti economici? Se la terra non è apprezzabile esclusivamente dal punto di vista economico, il potere del proprietario non è interpretabile alla luce delle tradizionali facoltà di godimento e di disposizione di cui alla classica definizione dell'art. 832 del codice civile. Quando il proprietario instaura un rapporto con la terra come bene in sé e non in quanto fonte di utilità economica - ed è quanto avviene nelle fattispecie che ho ricondotto alla proprietà ambientale - la terra rileva non più come bene economico, ma nel suo valore ideale, pur restando, ovviamente, bene giuridico, ossia oggetto del diritto di proprietà. La facoltà di godimento, proprio perché ha per oggetto un bene che rileva solo sul piano ideale, si esercita e si realizza sullo stesso piano: godere idealmente di un bene come la terra significa soddisfare quell'esigenza profonda di unione con la natura che è propria di ciascuna persona. In questa luce il godimento finisce per essere contemplazione; di conseguenza la facoltà di godimento per essere esercitata esige che il bene venga conservato. Se la proprietà ambientale è finalizzata al godimento ideale, se per tale fine occorre che il bene venga conservato, il potere di disposizione non può che essere strumentale al godimento: la facoltà di disposizione finisce per essere il potere di gestire il bene per la sua conservazione e perciò per permettere che venga goduto. Questo potere è il risvolto di quel carattere dinamico che sempre di più oggi assume la conservazione: i beni per essere conservati devono essere gestiti. La gestione a fini di conservazione altro non è che buon governo. Quanto al quadro costituzionale, se al tempo dell'Assemblea costituente la concezione economicistica della proprietà della terra trovava la sua giustificazione nella necessità di tutelare in via prioritaria il lavoro della terra e quindi di offrire un limite alla rendita fondiaria, oggi che quella tutela ha trovato adeguate soluzioni e che sono emersi valori fondamentali rilevanti su piani diversi da quello economico occorre verificare se e come l'art. 44 della Costituzione, che riguarda la "proprietà terriera privata", possa fare riferimento a questi diversi valori. Le finalità indicate dall'art. 44 si aprono a nuove suggestive prospettive: il razionale sfruttamento del suolo è buon governo, è cioè rispetto della terra in quanto feconda e nello stesso tempo conservazione di essa per consentirne il godimento nel presente e nel futuro; gli equi rapporti sociali indicano quali devono essere i rapporti tra i proprietari della terra e gli altri soggetti in quanto titolari di un interesse per la soddisfazione del quale si rende necessaria un'equa distribuzione non già della proprietà della terra, ma dell'accesso al godimento. Nella proprietà della terra la questione dell'accesso diventa centrale: l'accesso riguarda i non proprietari e soprattutto le future generazioni. La dimensione ideale libera la proprietà dal suo connubio storico con la rendita così come viene concepita dalle scienze economiche: se una rendita si vuole continuare a configurare, essa non è più l'utile individuale risultato dello sfruttamento dell'altrui iniziativa lavorativa o imprenditoriale, ma diventa patrimonio di tutti proprio perché connessa al godimento ideale e quindi alla conservazione. L'utile realizzato dalla proprietà, diventando patrimonio comune, rende rilevante sul piano giuridico l'interesse che tutti hanno al godimento del bene e pertanto fa emergere con forza gli interessi non proprietari. Il passaggio dalla rendita parassitaria alla rendita collettiva caratterizza questa metamorfosi della proprietà; il riferimento alla collettività sottolinea l'affacciarsi degli interessi della collettività al godimento del bene anche nel campo della rilevanza giuridica; la distribuzione del godimento ideale e il diritto all'accesso diventano la nuova frontiera della lotta per la terra. A questo punto la questione non si limita più alla sola proprietà ambientale, ma, proprio per la natura del bene e per il riferimento ai principi fondamentali contenuti nella Costituzione, si estende a qualsiasi tipo di proprietà della terra. L'accessibilità di cui al secondo comma dell'art. 42 Cost.18 acquista in questo quadro una nuova luce in grado di superare il tradizionale carattere di esclusività del diritto dominicale: l'accesso alla proprietà altrui per soddisfare un interesse di natura ideale indica al legislatore la nuova frontiera di quel diritto. È significativo che tale indicazione avvenga con riguardo alla terra, cioè proprio al più antico e tradizionale oggetto di proprietà, perché conferma la plasticità giuridica di questo bene. Lo strumentario concettuale a cui si può utilmente ricorrere è quello offerto dal trust del common law, cioè dalla proprietà fiduciaria dove il bene è non tanto funzionale quanto vincolato all'interesse altrui e dove pertanto la terra è vincolata all'interesse, cioè al godimento, della collettività e delle future generazioni. Giunti a questo punto possiamo chiederci:ma in fondo il diritto di accesso - che appunto dovrebbe essere espressione della rilevanza giuridica dell'interesse della collettività al godimento della terra e nello stesso tempo segnare un nuovo modo di concepire la proprietà - non lo sperimentiamo sul piano fattuale quando, percorrendo itinerari alla scoperta della natura e di noi stessi, attraversiamo terre che non sono di nostra proprietà (si pensi a pascoli montani o a boschi non recintati) senza avvertire il peso di violare il "terribile diritto", per usare l'espressione di Stefano Rodotà che è titolo di un suo famoso libro,19 e senza che il proprietario avverta una deminutio del suo diritto? E non ci è stato oggi efficacemente rappresentato, il diritto di accesso, dalla meraviglia espressa da James Sievert quando si è chiesto come sia possibile che in Italia si percorrano in mountain bike terre di proprietà altrui? Parchi e conversione culturale Troppo facile sarebbe accusare queste riflessioni di ecocentrismo, affermare che esse segnano un ritorno a una concezione che ha impedito di comprendere la funzione fondamentale delle popolazioni locali nelle politiche di conservazione, a quella museificazione della natura che tanti danni ha prodotto nel passato sia come ideologia (ritengo, ad esempio, che il processo di istituzione del Parco nazionale del Gennargentu si sia bloccato proprio perché è stato minato dal diffondersi di tale ideologia) sia sul piano degli effetti prodotti (in alcuni paesi intere popolazioni sono state espulse dai loro territori per istituire parchi nazionali considerati santuari della natura). Troppo facile sarebbe ritenere che l'impostazione che oggi ho data al mio intervento rappresenta un tradimento nei confronti del ruolo fondamentale che i parchi in tanti paesi, e in Italia con una propria originalità, stanno svolgendo e al quale io stesso ho contribuito: il ruolo di laboratori dello sviluppo sostenibile o, come dicono i francesi, durevole. Il ragionamento che ho cercato di fare si muove a un livello diverso: è un livello che guarda sì al passato, ma guarda anche dentro ciascuno di noi, e perciò al presente, e insieme guarda al futuro, alle generazioni che verranno. È un ragionamento che cerca di infrangere le barriere erette da una concezione fondamentalmente economicistica del parco, della natura, della terra e dello stesso sviluppo. Certo, è vero che i parchi italiani sono antropizzati, alcuni fortemente antropizzati e che questo non è un limite, semmai un valore; che occorre garantire la presenza umana la quale ha contribuito nei secoli e nei millenni a conformare quella natura che si vuol salvare, a creare quel paesaggio che si vuol tutelare; che il venir meno delle attività tradizionali comporterebbe un attentato a quella natura e a quel paesaggio; che la continuazione di quelle attività non può significare un impossibile ritorno al passato; che pertanto diventano centrali la questione dello sviluppo sostenibile e quella, strettamente collegata, della partecipazione delle popolazioni locali. Queste considerazioni sono talmente vere che non possono valere solo per i parchi, ma si devono applicare a tutto il territorio: proprio per questo i parchi rappresentano - o dovrebbero rappresentare - un modello per il resto del territorio, uno straordinario laboratorio sperimentale dello sviluppo sostenibile. L'abbiamo ripetuto infinite volte; l'ho sostenuto anche io con molta forza. Lo abbiamo fatto prima della legge quadro e questo ha permesso di arrivare alla legge; lo abbiamo fatto dopo la legge quadro e questo ha contribuito all'esplosione dei parchi. È tutto vero. Però non ci siamo resi conto che così rischiavamo e rischiamo di perdere il valore più prezioso dei parchi - dell'archetipo che oggi vedo, forse soltanto intuisco, in quella politicizzazione della natura, la quale ha una potenzialità straordinaria, direi rivoluzionaria, perché apre a un nuovo modo di far politica. Proprio in questo quadro vanno considerati gli ostacoli che la gestione dei parchi ha incontrato, soprattutto a partire dalla fine dello scorso decennio, cioè da quando, secondo Luigi Piccioni, è iniziata la "seconda glaciazione"; nello stesso tempo è in questo quadro che vanno iscritte le nuove mete che il parco nazionale deve perseguire. Gli ostacoli in parte sono il frutto della distorsione che ho cercato di descrivere e che è dovuta a quelle cause oggettive che Tonino Perna individua bene nel suo libro20 e cioè alla prevalenza che nella gestione quotidiana dei parchi hanno avuto i problemi economici, rispetto a quelli ideali; in parte sono conseguenza di una sorta di trahison des clercs, cioè del tradimento di quanti - nelle università, nelle associazioni, nelle istituzioni - hanno operato per l'interesse corporativo anziché cogliere la straordinaria occasione offerta dalla legge quadro per rompere i confini tradizionali della propria metodologia di studio o di azione, per navigare in mare aperto e contribuire così a costruire, proprio a partire dai parchi nazionali, un'altra politica che avesse alla base una cultura diversa dello sviluppo, che desse contenuto ideale e perciò forza al concetto stesso di sostenibilità il cui significato si andava stemperando e affievolendo man mano che cresceva l'utilizzazione mediatica e tutta economicistica del termine, che fosse in grado di rispondere alle domande fondamentali di chi ai parchi si rivolgeva, soprattutto a quella dei giovani. I parchi hanno oggi una missione, antica e nuova nello stesso tempo, in grado di esaltare sia le funzioni che essi hanno saputo svolgere e continuano a svolgere sia quel bagaglio, preziosissimo, di conoscenze, di entusiasmi, di capacità professionali, di fantasia che in tanti anni sono riusciti a costruire. Due obiettivi in particolare ritengo che essi debbano perseguire in virtù del loro significato strategico. a) Promuovere una profonda, effettiva, conversione culturale, che colga il valore ideale della terra e dello sviluppo - e perciò del binomio conservazione/valorizzazione - nella sua pienezza e in tutte le sue implicazioni, comprese quelle concrete, compresa cioè l'iniziativa quotidiana delle aree protette. Cogliere questo valore nella sua pienezza significa dare senso al parco perché esso ne rappresenta la vera filosofia e pertanto non può essere considerato un mero orpello, ma deve essere in grado di contaminare pienamente ogni singola attività. Il compito è difficile, difficilissimo, ma va affrontato e perseguito con determinazione se non si vuole indirizzare l'azione del parco e la stessa idea di parco verso la banalizzazione: è questo il vero rischio a cui oggi i parchi vanno incontro. Segno di questa conversione laica potrebbe essere un manifesto della terra che, facendo leva sul nesso inscindibile tra parco naturale e terra, serva a diffondere il messaggio che la terra feconda è vita e pertanto deve essere salvata, ovunque; che è bene collettivo e l'appartenenza alla collettività deve essere garantita non con la diffusione di nuove forme di proprietà pubblica, ma facendo emergere l'interesse al suo godimento ideale da parte sia dei proprietari sia dei non proprietari; che tale interesse deve trovare soddisfazione attraverso il diritto all'accesso adeguatamente regolato con particolare riferimento ai più deboli; che l'accesso alla terra indica la nuova frontiera non solo del diritto di proprietà, ma anche delle politiche di conservazione; che i parchi rappresentano un'occasione straordinaria per oltrepassare, o quanto meno affrontare, la nuova frontiera. b) Promuovere, sulla base di questa conversione culturale, un movimento di idee, di soggetti e di iniziative finalizzato al sostegno e alla diffusione del valore ideale dei parchi e della terra e pertanto delle questioni contenute nel manifesto e di quelle a esso collegate, a partire dalla questione dell'accesso. A proposito di tale questione è opportuno un chiarimento. Quando con riferimento ai parchi, ma non solo a essi, si parla di accesso, in realtà ci si riferisce all'accesso dei piccoli, dei deboli, cioè all'accessibilità. E si dice che l'accessibilità è importante perché il turismo dei disabili, quello degli anziani, quello degli studenti rappresenta una fetta importante del mercato turistico; poi ci si affretta ad aggiungere che assicurare questo flusso turistico ha anche un alto significato etico e civile. In realtà il valore dell'accesso è qualcosa di molto più profondo e, sul piano dell'iniziativa concreta, molto più complesso. Per varie ragioni: chiama in causa il concetto di bene comune; è un modo di vivere la terra e il parco; tenta di dare risposte vere a quel bisogno profondo di natura che nei piccoli e nei deboli è ancora più forte, anche se spesso non consapevole; è particolarmente difficile il percorso per il soddisfacimento di tale bisogno e richiede passione, determinazione, conoscenze scientifiche e capacità tecniche. Concludo. Sono convinto che oggi vi sia spazio per un movimento che si muova nel segno della gratuità e dell'utopia concreta e le cui finalità si inseriscano nel quadro di quanto qui ho cercato sia pur sommariamente di indicare: un movimento in grado di offrire, appunto, passione, determinazione, conoscenze scientifiche e capacità tecniche. La mia convinzione trova conferma nella recente apparizione nel mondo associativo di quell'Unione per i Parchi e la natura d'Italia, fondata da Maurilio Cipparone, che nasce da una profonda insoddisfazione del "popolo dei parchi" nei confronti della situazione in cui versano attualmente le aree protette e cerca di raccogliere i fermenti più autentici di quel popolo e di promuoverne e sostenerne le esperienze. Poiché la ragione profonda di tale insoddisfazione risiede nell'assoluta mancanza di prospettive ideali delle politiche e delle iniziative ufficiali per le aree protette è soprattutto a quel popolo che vorrei rivolgere queste mie riflessioni. Carlo Alberto Graziani Note |