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Quaderni del Parco
  Centro Studi Valerio Giacomini sulle Aree Protette

germano reale

Stato, Regioni, enti locali ed aree naturali protette nel nuovo scenario costituzionale

Due interpretazioni a confronto
Le interpretazioni che sono state date della nuova disposizione del Titolo V, che attribuisce allo stato la competenza legislativa esclusiva per la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” (lett. s del secondo comma dell’art. 117), sono sostanzialmente due.
Secondo una prima tesi la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema sarebbe una vera e propria materia in senso oggettivo, eventualmente identificabile facendo riferimento alla tutela di determinati fattori ambientali – come l’acqua, l’aria, il suolo – e in generale degli equilibri ecologici. Ne consegue che va esclusa una potestà legislativa delle regioni in campo ambientale, sia in ordine alla sostanza degli interventi, sia (art. 118, primo comma) in ordine alla distribuzione e conferimento delle funzioni amministrative. Si potrebbe ammettere – si sostiene – l’esistenza di una potestà legislativa regionale di tipo attuativo o integrativo, autorizzata dalla legge statale, ma poiché tale possibilità sembra in effetti del tutto esclusa dalla lettera e dal senso del nuovo testo (sta di fatto che è venuta meno la disposizione del secondo comma dell’art. 117 precedente alla riforma), si suggerisce soprattutto che le regioni potrebbero tornare ad avere una competenza legislativa attraverso una applicazione generalizzata di quanto previsto dall’art. 116, terzo comma: riconoscimento – proprio in materia ambientale – con legge dello stato ad ogni singola regione di condizioni particolari di autonomia, a seguito dell’iniziativa della regione, sentiti gli enti locali, e di un procedimento di intesa tra lo stato e la regione stessa.
La tesi ora accennata presenta tuttavia più punti dubbi, sia nei presupposti che nelle conseguenze.
In primo luogo, ritiene che si possa individuare una materia ambientale in senso oggettivo, ma gli elementi sui quali si basa a tale scopo appaiono piuttosto incerti. Da un lato fare riferimento a singoli fattori ambientali rinvia, in realtà, ad un approccio per settori (attraverso i quali non si va molto oltre il contenimento dei danni di alcuni tipi di inquinamento) e quindi parziale; dall’altro parlare di equilibri ecologici chiama in causa, invece, un numero praticamente indeterminato di fattori, così da rendere la materia ambientale in pratica senza limiti e potenzialmente destinata ad assorbire tutte le altre. Inoltre, l’idea di equilibrio appare discutibile, in quanto rinvia ad una concezione statica, ora messa in discussione dalla scienza della ecologia che considera l’ambiente come un sistema dinamico e in continua trasformazione.
In secondo luogo, la tesi sembra avere delle conseguenze che appaiono poco realistiche in merito al ruolo dello stato, che finisce per essere enormemente sopravalutato proprio nel momento in cui è, invece, di fatto ridimensionato dalla crescita della pluralità dei poteri pubblici nell’ordinamento interno e dalla perdita di poteri a favore di organizzazioni e sistemi sovranazionali e internazionali. La tesi, così, sembra andare contro l’evidenza – non solo nel nostro ma in tanti paesi – che la regolazione giuridica dell’ambiente non avviene attraverso la competenza esclusiva di un solo soggetto, lo stato, ma è il frutto del confronto e del concorso di tanti soggetti, interessi, tipi di conoscenze. Seguendo la tesi qui criticata, che accadrebbe, poi, se lo stato non esercitasse la sua competenza esclusiva sull’ambiente? È ammissibile che questo resti senza tutela? In realtà, tale possibilità sembra esclusa proprio dalla prima parte della Costituzione che – in particolare con gli articoli 9, 32 e 2, secondo le interpretazioni date – fonda il potere-dovere di tutti i soggetti che costituiscono la repubblica (come ora recita il nuovo art. 114, primo comma: i comuni, le province, le città metropolitane, le regioni e lo stato) di tutelare l’ambiente; ma ciò contrasta, appunto, con la tesi della esclusiva competenza statale.
Si giunge, così, alla seconda possibile interpretazione della lett. s del secondo comma dell’art. 117, che vede nell’ambiente non una materia in senso proprio, che identifica e delimita cioè un oggetto specifico, bensì una materia di scopo, che attraversa condizionandole – e si parla dunque anche di materia trasversale – tutte le altre materie, siano esse di competenza concorrente, residuale regionale o anche statale esclusiva. Certamente, così enunciata, anche tale tesi potrebbe portare all’inconveniente di aprire le porte ad un intervento statale tendenzialmente indeterminato (dato il carattere indeterminato dell’ambiente) e, quindi, invasivo delle competenze regionali. Questo rischio, tuttavia, può attenuarsi nel momento in cui: innanzitutto, si parte dal presupposto che le regioni sono già legittimate ad intervenire (anche in via legislativa) in base al principio della necessaria integrazione dell’interesse ambientale in tutte le materie (ricavabile – come si è detto – dalla prima parte della Costituzione); in secondo luogo, si limita la competenza statale solo a quei contenuti ed aspetti che devono avere necessariamente carattere unitario.
Altrimenti detto, tutti i soggetti che costituiscono la repubblica possono e devono intervenire a tutela dell’ambiente, salvi gli aspetti necessariamente e oggettivamente unitari di competenza esclusiva dello stato. Le regioni, in particolare, esercitando le loro competenze legislative residuali e quelle concorrenti, potranno continuare a disciplinare i problemi ambientali (tenendo conto di quanto stabilito in via unitaria dallo stato nell’esercizio della sua competenza esclusiva) e potranno altresì intervenire – con legge – nella distribuzione e conferimento delle funzioni amministrative.
La giurisprudenza della Corte costituzionale sembra muoversi in una linea pensiero sostanzialmente identica a quella della tesi ora da ultimo accennata. In particolare, la sentenza n° 407/2002 afferma, appunto, che l’evoluzione legislativa e la giurisprudenza costituzionale portano ad escludere che possa identificarsi una materia in senso tecnico qualificabile come “tutela dell’ambiente”, dato che al contrario questa “si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze”. Piuttosto – si afferma – l’ambiente è un “valore costituzionalmente protetto”, dunque una materia trasversale. Ne consegue che potranno esservi competenze legislative delle regioni per interventi “diretti a soddisfare contestualmente nell’ambito delle proprie competenze” le esigenze ambientali; mentre spetteranno allo stato “le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale… il potere di fissare standard di tutela uniformi”.

2. Le conseguenze per le aree protette
Ammessa, dunque, l’interpretazione della competenza statale esclusiva in campo ambientale nel senso di una competenza di tipo trasversale relativa alla fissazione di profili unitari – standard minimi e uniformi, come dice la Corte costituzionale – ci si può chiedere quali elementi della disciplina delle aree protette, stabiliti dalla legge n° 394/1991 e dalle sue successive integrazioni e modificazioni, siano da collocare nella competenza statale secondo quanto previsto dalla lett. s del secondo comma dell’art. 117.
Il primo elemento che viene in considerazione è, allora, proprio lo “speciale regime di tutela e gestione” delle aree protette, quale emerge dai principi e dalle finalità della legge n° 394 del 1991 e che – appunto nella stessa legge (art. 1, quarto comma) – identifica giuridicamente, in maniera unitaria per tutto il territorio nazionale, le aree protette come tali.
In connessione con tale elemento, dovrebbero poi essere considerati: la disciplina unitaria della classificazione delle aree protette e dell’elenco ufficiale; la definizione della disciplina del sistema unitario delle aree protette, con i vari organi e strumenti (si pensi, ad esempio, alla Carta della natura) che compongono il sistema stesso.
Ciò detto, non solo non dovrebbero esservi dubbi che possano esistere aree protette regionali come entità amministrative (in forza della fine del parallelismo tra funzioni legislative e amministrative e del principio di sussidiarietà che regola, in base all’art. 118, primo comma, il riparto delle funzioni amministrative), ma nemmeno che le regioni conservino competenze legislative in materia. Da un lato, infatti, la competenza statale deve limitarsi, come si è visto, agli elementi necessariamente unitari, gli standard minimi e uniformi; dall’altro, come ormai messo in luce da tempo e da più parti, alla disciplina e alla gestione delle aree protette concorrono interessi, funzioni, interventi – collocabili in genere negli ambiti del governo del territorio, della valorizzazione dei beni ambientali e culturali, dell’agricoltura e dello sviluppo rurale, del turismo – che sono di competenza concorrente o residuale generale delle regioni, ma “inestricabilmente” (per dirla con la Corte costituzionale) connessi alla tutela ambientale e, in particolare, alla realizzazione e gestione delle aree protette.

3. Una situazione instabile
Quanto si è detto rappresenta un punto di arrivo sicuramente significativo, che si basa su presupposti ora riconosciuti, come si è visto, dalla giurisprudenza costituzionale. Non sembra, tuttavia, anche un punto consolidato, fermo. E ciò non solo perché l’interpretazione del testo del nuovo Titolo V è in una fase iniziale, ma perché lo stesso testo costituzionale appare al momento, per così dire, un terreno mobile. Tale, in effetti, è divenuto già da qualche tempo, sia per via del procedere verso le riforme per passi successivi e quindi in maniera frammentaria, sia per via della mancanza di una piena condivisione tra le forze politiche di almeno alcuni punti fermi fondamentali. L’instabilità potrebbe ora accentuarsi per via del fatto che due processi, per certi aspetti tra loro in contraddizione, stanno andando avanti contemporaneamente: da un lato un disegno di legge ordinaria che dà attuazione a vari contenuti del Titolo V, votato dalla Camera alla fine di aprile 2003 (e non mancano profili attuativi che potranno incidere sull’assetto della tutela ambientale); dall’altro la messa a punto di un nuovo disegno di legge costituzionale (che dovrebbe incorporare la proposta di “devolution” votata dalla Camera nell’aprile 2003) di ulteriore revisione del Titolo V, che – almeno nel testo al momento conosciuto, adottato dal consiglio dei ministri in data 11 aprile 2003 – sotto vari aspetti dovrebbe incidere anche sull’assetto delle competenze e degli interventi in campo ambientale. Infatti, la “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” resterebbe sempre di potestà legislativa esclusiva dello stato, ma: allo stato spetterebbero anche le norme generali concernenti la tutela del paesaggio; il governo del territorio, la valorizzazione del paesaggio, dei beni culturali e ambientali, diverrebbero materie di “potestà legislativa esclusiva” delle regioni; l’agricoltura, l’industria e il turismo, che erano competenze regionali residuali generali, diverrebbero potestà legislative esclusive regionali, ma solo per l’agricoltura, l’industria e il turismo “in ambito regionale”, mentre spetterebbero allo stato le “norme generali”; le grandi reti di infrastrutture e l’energia diverrebbero, da concorrenti, potestà esclusive dello stato. In generale, poi, le regioni dovrebbero esercitare le loro potestà legislative esclusive “nel rispetto dell’interesse nazionale”; il che potrebbe, però, voler dire riaprire la via ad un intervento statale di tipo indeterminato, per attivare il quale basterebbe appunto invocare l’interesse nazionale. Ora, certamente, va tenuto conto che il testo in questione può essere soggetto a cambiamenti, però al momento sembrerebbe che di massima – almeno per l’ambito che qui interessa – si sia di fronte ad una tendenziale crescita dei poteri dello stato. Resterebbe probabilmente l’ambiente come materia trasversale, ma tale materia attraverserebbe un più elevato numero di competenze statali e rimarrebbe sempre la possibilità di una ulteriore espansione della competenza statale sulla base della clausola dell’interesse nazionale.
In presenza di una situazione incerta occorrerebbe, dunque, prima ancora di discutere sui riparti delle competenze, aumentare l’impegno di riflessione volto a chiarire quali effetti si ricercano nei cambiamenti già introdotti e in quelli che potrebbero seguire, quali cioè siano le condizioni che vanno assicurate affinché gli interessi ambientali e alla protezione della natura siano messi in grado di esprimersi e di realizzarsi attraverso soluzioni giuridiche adeguate per la tutela e la gestione. Andrebbe, quindi, innanzitutto verificato quali elementi siano da considerare fondamentali, una sorta di punti fermi, per la realizzazione della tutela ambientale.
A questo proposito – senza pretesa di completezza e come stimolo alla ricerca – si potrebbe immaginare come primo elemento fondamentale la connessione tra l’idea pluralista di repubblica contenuta nell’art. 114, primo comma, e l’idea della necessaria integrazione degli interessi ambientali a tutti i livelli, che appunto costituiscono la repubblica, quale emerge dalla prima parte della Costituzione.
Segue, perciò, come secondo elemento, che dovrebbero restare fermi (semmai rafforzarsi) i fondamenti dell’integrazione degli interessi ambientali, fin qui trovati proprio in vari aspetti della prima parte della Costituzione: negli articoli 9 e 32, che chiamano tutti i soggetti componenti la repubblica alla tutela rispettivamente del paesaggio e della salute umana; nei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale di cui all’art. 2; nella sicurezza, libertà e nella dignità umana di cui all’art. 41; nella stessa struttura sociale e politica fondata sul pluralismo in generale proposta dalla Costituzione.
In questo quadro – ed ecco il terzo elemento – andrebbe, allora, senz’altro superata l’idea che vede nello stato il vero ed unico difensore dell’ambiente (e la cronaca, del resto, mostra come anche dallo stato possano venire leggi e interventi dannosi per l’ambiente) e mantenuto fermo che le regioni, certamente tenendo conto di standard unitari di competenza statale, possano e debbano esercitare le loro competenze legislative per disciplinare interventi di tutela ambientale.
Infine, quarto elemento, una volta ammesso che la tutela ambientale è il risultato del confronto e della collaborazione tra più istituzioni, interessi e conoscenze e che tale tutela non può se non trarre benefici dal mantenimento e rafforzamento del pluralismo, andrebbe riportata l’attenzione (possibilmente anche più di quanto avvenuto nella redazione dell’attuale Titolo V della Costituzione) sui momenti e sugli strumenti del confronto e della collaborazione, tra stato e regioni ma non solo.

4. Gli elementi fondamentali della regolazione giuridica delle aree protette
In connessione a quanto finora detto, possono poi individuarsi gli elementi fondamentali, e quindi i punti fermi, relativi specificamente alle aree protette, che andrebbero salvaguardati e casomai sviluppati in presenza di ulteriori trasformazioni sia del testo costituzionale, sia della legislazione ordinaria.
In proposito, il primo elemento che va considerato è che esista uno standard nazionale di cosa debba intendersi per area protetta: che esista cioè, come già previsto dalla legge n° 394, un regime giuridico unitario delle aree protette, definito da principi e finalità appunto unitarie: si tratta infatti di un elemento fondamentale, da un lato per mantenere la specialità del regime delle aree protette rispetto a quanto può ottenersi con la ordinaria pianificazione territoriale generale e dall’altro per evitare che il termine area protetta divenga un nome generico se non vuoto di contenuti, eventualmente una etichetta di tipo solo promozionale applicabile alle realtà più varie, rispondenti a principi e fini diversi.
Il secondo elemento da considerare è che la gestione delle aree sia improntata ai principi del pluralismo. Ferma restando la possibilità qui di avere una diversificazione di modelli organizzativi, si deve ritenere che – se l’area protetta è la situazione giuridica identificata dal regime previsto dalla legge n° 394 e quindi dai fini lì indicati, tra i quali fondamentale è la ricerca di una “integrazione tra uomo e ambiente naturale” – tale area non può essere gestita da un ente tecnico-burocratico, di tipo strumentale (dello stato o della regione), ma da una struttura di gestione che – come delineato dalla stessa legge n° 394 – sia sede di confronto e di collaborazione tra enti di livelli diversi, tra elemento politico e elemento tecnico-scientifico, tra più interessi. Ciò vuole anche dire che la struttura di gestione dovrà essere messa in grado di avere una posizione di autonomia (di tipo funzionale, nel senso di essere diretta al perseguimento di una specifica missione) nei confronti dei soggetti politico-amministrativi: la capacità del gestore di operare attraverso il confronto (di ricercare in tal modo le condizioni per dare forma concreta all’interesse ambientale e assicurarne la realizzazione) e la posizione di autonomia sono, in effetti, tra loro strettamente connesse.
Al contrario, appaiono, non in sintonia con quanto appena accennato quelle normative ed interventi che prevedono elementi organizzativi che tendono a configurare l’ente parco come una figura di tipo strumentale, che attenuano il carattere pluralistico della composizione degli organi degli enti, che diminuiscono il coinvolgimento delle collettività locali nella gestione a favore di soluzioni burocratiche.
In generale, si può ritenere che l’affermazione costituzionale dei principi del pluralismo degli interessi e delle istituzioni sia la base su cui si fonda il nuovo regime delle aree protette, quale – pur con difficoltà e contraddizioni – è andato emergendo e configurandosi dopo la legge n° 394.

Dirigente di ricerca, Istituto di Studi sui Sistemi Regionali Federali e sulle Autonomie, CNR, Roma