Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 54



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Verso una civiltà "post-fossile": parla Wolfgang Sachs

verso una civiltà “post-fossile”

Clima, petrolio equità e agricoltura

Nato a Monaco nel 1946, si forma studiando teologia, sociologia e storia nelle università di Monaco, Tübingen e Berkeley. Prosegue la sua carriera come ricercatore e professore a Berlino, Roma, in Pennsylvania e ad Essen.
Dal 1993 lavora presso il Wuppertal Institut, noto centro di ricerca in materia di clima, energia e ambiente, per cui dirige attualmente diversi progetti su globalizzazione e sostenibilità. E’ inoltre professore onorario all’Università di Kassel e presso lo Schumacher College in Inghilterra, nonché docente per il Centro Interuniversitario per lo Sviluppo de La Sapienza di Roma. E’ stato, in parallelo, vivace esponente del movimento verde in Germania. Condirettore del giornale “Development”. Direttore di Greenpeace Germania dal 1993 al 2001; a tutt’oggi membro attivo del Club di Roma. In materia di clima ha partecipato dal ‘91 al 2001 ai lavori dell'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC).
E’ autore e curatore di numerosi libri, molti dei quali tradotti in italiano: dal “Dizionario dello sviluppo” (Edizioni Gruppo Abele, 1998) divenuto un classico in materia, pubblicato nel 1992 nella sua prima edizione e successivamente rivisto e tradotto in 12 lingue, a “Futuro sostenibile. Riconversione ecologica, nord-sud, nuovi stili di vita” (Emi, 1997) scritto con R. Loske e M. Linz, ai più recenti “Per un futuro equo. Conflitti sulle risorse e giustizia globale” e “Commercio e agricoltura. Dall’efficienza economica alla sostenibilità sociale e ambientale”, entrambi scritti con T. Santarius e pubblicati nel 2007 rispettivamente da Feltrinelli ed Emi. Gli altri titoli disponibili in italiano sono: “Archeologia dello sviluppo. Nord e Sud dopo il tracollo dell'Est” (Macroedizioni, 1992), “Ambiente e giustizia sociale. I limiti della globalizzazione” (Editori Riuniti, 2002), “Jo'burg Memo. Ecologia, il nuovo colore della giustizia” (Emi, 2002).

Prof. Sachs, molti ritengono che il cambio del clima sia la sfida più grande che l’umanità del XXI secolo dovrà affrontare, lei è d’accordo?
La sua domanda, volta in affermazione, è una citazione del discorso che il cancelliere tedesco Angela Merkel tenne al World Economic Forum un anno fa. Come potrei contraddire il mio cancelliere?
Il cambio del clima è un problema di portata planetaria e non è solo una questione scientifica e ambientale, è un dilemma umano strettamente connesso alla disuguaglianza nel mondo. Il ridimensionamento dello spazio disponibile per i gas serra nella “discarica atmosfera” è, infatti, un fattore molto influente sullo sviluppo economico, sul benessere ed sul futuro di tutti i paesi. Il clima non è una questione solo ecologica: attingere alla discarica atmosfera conferisce un notevole potere economico. Per questo l’accesso a questa “discarica” è desiderio di tanti popoli e fattore determinante per lo sviluppo ed il mantenimento di svariate attività industriali in molte parti del mondo.

Parliamo allora di equità. Da un lato sembra che i problemi globali ci mettano davanti all’esigenza di alimentare una vera cooperazione internazionale, di costruire una direzione politica per dar vita ad una “civiltà del pianeta”, dall’altro il processo di globalizzazione parte dagli interessi economici dei grandi gruppi imprenditoriali e finanziari, e sembra quindi diretto al contrario a far aumentare la disuguaglianza.
Qual è allora la ricetta per andare verso uguaglianza e giustizia internazionale?

I due aspetti che lei ha messo in luce giocano entrambi in modo determinante.
Per semplificare, i paesi del sud del mondo dicono: “non solo all’epoca del colonialismo, ma anche oggi, con il processo di globalizzazione, siamo in una situazione in cui cresce il divario tra ricchi e poveri”. Non si può dire, infatti, che la povertà si sia diffusa maggiormente nell’era post-coloniale, però la polarizzazione nord-sud è aumentata, la forbice sociale tra chi sta bene e chi sta male si è ulteriormente dilatata. Ed il passaggio successivo di un loro discorso sarebbe: “come potete chiederci ora di ridurre le nostre emissioni? Non potete, da un lato, aumentare il divario economico che ci separa da voi e, dall’altro, pretendere che assumiamo un comportamento ecologista che ci penalizzerebbe ulteriormente in termini economici”. C’è una stretta connessione tra i due lati della medaglia. Per questo motivo ritengo che l’arroganza dei paesi ricchi che si è espressa in questa fase di globalizzazione (mi riferisco in particolare a comportamento e politica del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale) sia un serio ostacolo a quella cooperazione leale necessaria per risolvere problemi planetari come il cambiamento del clima. Il fatto interessante è che di fronte a dilemmi di questa portata la spinta per colmare il divario di ricchezza e benessere non può più essere solo materia per moralisti e amanti dell’equità, ma diventa una necessità diplomatica concreta. Per risolvere il problema del clima è essenziale la collaborazione di tutti i paesi, la loro capacità di collaborare e trovare accordi, coordinando e armonizzando i loro rispettivi interessi. Per stare al gioco i più deboli pretenderanno di essere trattati in modo chiaro e onesto.
In sintesi: i problemi dell’ecologia impongono oggi una maggiore equità.

Alla luce di questa esigenza di equità e della necessità di accordo per risolvere il problema del clima, facciamo un panorama dello scenario internazionale dopo l’incontro di Bali, da Europa e Stati Uniti a Cina e India. Quali novità?
L’Europa ha sempre cercato di avere un ruolo da protagonista nella battaglia al cambio del clima, e Bali ne è stata la conferma: non credo sia questa la novità sullo scenario internazionale.
Per la prima volta, invece, si sono visti segnali positivi di interessamento da parte della Cina, e, con mia sorpresa, un po’ meno dall’India. Per tanti anni la Cina ha rifiutato una qualsiasi discussione in merito ad un tetto da porre alle emissioni; oggi non sono ancora pronti ad ammettere che questa sia un’esigenza impellente, però i segnali incoraggianti non sono pochi, per esempio sul piano della cooperazione tecnologica le cose iniziano a muoversi. Ogni giorno di più la Cina comprende di essere contemporaneamente fautore e vittima del cambio del clima, per cui direi che questo paese è pronto a fare la sua parte. Bali tutto sommato era già nell’ombra delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, un fatto che cambierà indubbiamente lo scenario della politica del clima. Ad oggi l’atteggiamento statunitense è uno degli ostacoli principali, non è a caso che l’appuntamento di Copenhagen è stato fissato dopo le elezioni USA.
Finora inoltre, gli obblighi di riduzione riguardavano solo i paesi ricchi, secondo quanto previsto dagli accordi della Convenzione sul Clima del 1992 e del Protocollo di Kyoto. Una limitazione dovuta a motivi di equità: prima devono dare un segnale concreto i paesi che sono maggiormente responsabili delle emissioni e che hanno più mezzi di far fronte e impegnarsi per ridurle. Solo in un secondo tempo, che è quello che stiamo attualmente vivendo, anche le altre nazioni dovranno impegnarsi nel contenimento delle emissioni. Il problema è oggi quindi: a quale prezzo i paesi emergenti saranno disponibili a collaborare? Questo “valore” sarà in qualche modo collegato alla disuguaglianza che finora si è accentuata, per cui il sud chiederà un prezzo che sia in qualche modo un segnale di revisione della disuguaglianza consueta.

Facciamo a questo punto un salto e passiamo dalla scala planetaria ad una scala più vicina al nostro quotidiano. Un’amministrazione locale, una Provincia, un Comune o un Ente Parco, ed il singolo cittadino, come possono dare un contributo ad un processo che riguarda tutto il pianeta?
Possiamo utilizzare una metafora, tutti gli uomini e tutti i luoghi sono come le cellule nell’organismo umano, in tutte deve cambiare qualcosa per portare l’organismo in una direzione nuova, per cambiare il metabolismo intero. Far fronte alle sfide del clima, è un compito che coinvolge tutti perché tutti fanno parte dell’organismo. La motivazione più importante per impegnarsi in tal senso è il rispetto di sé, come istituzione o come persona: non possiamo metterci da parte o far finta di niente davanti alla sfida più grande di tutta l’umanità. La dignità richiede che ciascuno faccia la sua piccola parte.
I parchi, in particolare, assumono un nuovo ruolo alla luce del cambio del clima: sono delle “riserve” per il pianeta, e non solo in senso naturalistico essendo aree privilegiate per l’assorbimento dell’anidride carbonica. Sono quindi chiamati ad essere elementi chiave di un sistema planetario di protezione. Devono essere consapevoli di giocare un ruolo cruciale in un quadro di riferimento biosferico, che va al di là del pregio locale paesaggistico e naturalistico, e che è relativamente indipendente dai compiti loro attribuiti dalla politica locale o nazionale. Un fatto, questo, che ritengo si faccia già sentire nella politica a livello internazionale: estendere i parchi, “la pelle verde del pianeta”, è un’esigenza ed una strategia importante per fronteggiare il cambiamento del clima.

C’è un altro campo internazionale su cui credo le aree protette siano chiamate a giocare una partita importante: l’agricoltura. Facciamo un parallelo speculare. I parchi, chiamati originariamente a tutelare i sistemi naturali, devono operare sempre più per costruire una rete economica a sostegno delle comunità locali. Analogamente l’agricoltura, tradizionale attività economica locale, è oggi chiamata a fare i conti con biodiversità e tutela dei suoli. Parchi e agricoltura sono chiamati ad una “multifunzionalità” sostenibile: sembrano fatti per andare a braccetto. Cosa ne pensa?
La prima cosa che mi viene in mente a riguardo è il concetto di wilderness: un pensiero molto americano, legato ad un’immagine di innocenza e integrità dei grandi spazi degli Stati Uniti, che diventa sempre più un’astrazione e che negli ultimi 30 anni è stato sempre più criticato a livello globale. Anche nei luoghi più remoti non esiste wilderness integrale: c’è gente che vive quasi in ogni parte della terra. Istituire un parco oggi con questa filosofia di base e senza tener conto delle persone che abitano e vivono un territorio, è anacronistico. Fortunatamente, a livello planetario, si è fatta strada l’idea che la protezione deve considerare e integrare la gente che vive all’interno e ai margini di un parco. E’ chiaro però che la situazione richieda una reciprocità: anche la gente che si trova a vivere vicino o dentro un’area protetta dovrà trovare stili di comportamento ed economia che siano compatibili con le esigenze di tutela. Ecco allora che un’agricoltura sostenibile e organica entra fortemente in gioco perché permette un impatto molto minore e talvolta svolge addirittura una funzione positiva di manutenzione dell’assetto territoriale che contribuisce al lavoro più diretto di un’area protetta.
Sono parecchi gli esempi, soprattutto nel sud del mondo, in cui grazie ad un parco ed all’attività agricola si è sviluppata un’economia locale che è indispensabile perché la gente capisca e sia disponibile a tutelare il territorio. Visto, poi che stiamo parlando di clima, va sottolineato come l’agricoltura sia al centro del dibattito climatico per due, anzi tre motivi. Primo: l’agricoltura industrializzata è una fonte considerevole di gas serra (meno CO2 che metano e altri gas). Due fattori incidono molto in tal senso a livello globale: la deforestazione operata per trovare nuove superfici agricole e la pratica dell’allevamento di massa di varie specie animali. Essi fanno sì che l’agricoltura contribuisca con una percentuale che si aggira intorno al 20-25% del totale delle emissioni serra a livello globale: un apporto determinante. In Europa la percentuale scende notevolmente, ma rimane del tutto significativa: intorno al 10-12%. In secondo luogo l’agricoltura non sarà solo fautore, ma anche vittima del cambio del clima. Cambieranno infatti le condizioni di temperatura e umidità, la disponibilità di acqua, la fertilità dei suoli, etc…
Una terza correlazione tra agricoltura e clima è data dal fatto che le pratiche agricole industriali sono molto dipendenti dal petrolio. Innanzitutto i pesticidi hanno tutti base petrolchimica, poi il processo di produzione dei fertilizzanti richiede molta energia che in gran parte arriva dal petrolio, non ultimo infine il combustibile richiesto per il funzionamento delle macchine agricole, sempre più potenti. Se consideriamo in una visione più ampia tutta la “catena di produzione” del cibo che arriva sulle nostre tavole, la situazione è ancora peggiore: è una vera catena del petrolio. Qualcuno dice non a torto che in verità noi oggi mangiamo petrolio.
Questa sarà una delle grosse difficoltà per il prossimo futuro, la fine del petrolio e l’aumento conseguente del suo prezzo di mercato costituirà un problema globale non solo in termini di mobilità, come tutti pensano, ma anche e soprattutto per la fame nel mondo.
Bisogna allora chiedersi: “come si può coltivare senza petrolio?”. L’unica soluzione è una “de-industrializzazione” del settore, per lasciar spazio ad una nuova agricoltura che si basi su un utilizzo intelligente della biodiversità. [NdR. Forse oggi è proprio compito dei parchi contribuire al formarsi di una tale cultura].

Clima, cibo e petrolio. Approfondiamo le connessioni tra questi tre grandi settori che influenzeranno in modo determinante lo sviluppo del pianeta nei prossimi anni.
Partiamo dal “caos climatico”, come sarebbe più opportuno chiamare il cambiamento del clima, poiché il sentiero di ciò che avviene e avverrà non può essere tracciato con precisione per la sua complessità.
Un dato di fatto è che il surriscaldamento globale sta provocando uno scioglimento di tutti i grandi ghiacciai del mondo. In Italia lo vedete nelle Alpi, ma fenomeni analoghi accadono in America del Nord, in America Latina, in Asia e altrove. Molti dei principali fiumi del pianeta sono alimentati dai ghiacciai delle catene montuose più alte, bastano pochi esempi per rendersene conto: il famoso Colorado River degli Stati Uniti nasce dalle Rocky Mountains, il Rio delle Amazzoni dalle Ande, tutti i grandi fiumi asiatici (Brahmaputra, Mekong, Yangtze, Gange, Fiume Giallo) dalla catena dell’Himalaya. Con lo scioglimento delle riserve che alimentano questi corsi d’acqua è facile immaginare che si avrà, dilatato nel prossimo mezzo secolo, un periodo di piena cui seguirà una grande carenza di acqua.
Questa situazione determinerà, soprattutto in India e Cina, dove le grandi pianure coltivate sono alimentate e dipendenti dai grandi fiumi che le attraversano, una crisi del cibo. Una tale situazione di emergenza in nei due paesi più popolati del mondo sarà una crisi planetaria del settore alimentare.
La carenza d’acqua, proprio come la carenza di petrolio, avranno un impatto notevole sulla catena del cibo.

Tuttavia, mentre la carenza d’acqua sembra avere solo risvolti negativi, così non è per la crisi del petrolio che lei spesso definisce “la fortuna nella sfortuna”. Può spiegarci perché?
La fortuna nella sfortuna è la coincidenza storica della crisi del petrolio con la crisi del clima. Non è scritto da nessuna parte che queste due difficoltà planetarie dovessero verificarsi nello stesso momento.
Il fatto generalmente riconosciuto che le riserve di petrolio (e anche di gas e uranio) siano in fase di esaurimento è un aiuto non da poco a far fronte al problema del surriscaldamento.
Immaginate, per esempio, se la crisi climatica fosse oggi e la crisi del petrolio tra cento anni: tutto sarebbe molto più difficile. Dai problemi del clima si tende sempre a sfuggire: le conseguenze colpiscono persone che vivono lontano, oppure persone che vivranno domani. Dalle conseguenze della crisi del petrolio invece è difficile scappare, perché colpiscono direttamente i nostri interessi di oggi: ce ne accorgiamo in prima persona ogni volta che facciamo benzina.
E non potrebbe essere diversamente, dal momento che il petrolio è la base su cui si regge tutta la civiltà euro-atlantica che ha preso il sopravvento dalla rivoluzione industriale in poi. L’aumento del prezzo del petrolio, connesso da un lato con l’esplosione della domanda (arrivano infatti molti nuovi paesi che desiderano uno sviluppo “euro-atlantico”) e dall’altro con lo scarseggiare della risorsa, sta di fatto cambiando profondamente lo scenario di ciascun attore economico e politico del mondo. Una seconda coincidenza interessante è che, in gran parte, far fronte alla crisi della scarsità delle risorse fossili, corrisponde a fronteggiare la crisi del clima. Grazie a questa convergenza, una serie di movimenti che si stanno verificando a livello economico e politico soprattutto per limitare le conseguenze della crisi del petrolio, ci portano anche nella giusta direzione per contenere il surriscaldamento.
E’ davvero una fortuna nella disgrazia.
Non si può dire lo stesso purtroppo per il carbone, più abbondante ed ancora lontano dall’esaurirsi, su cui verte un acceso dibattito. Quest’ultimo infatti, da un lato costituisce una scappatoia per tamponare la scarsità degli altri combustibili fossili, ma, dall’altro, il suo utilizzo porta ad una accelerazione delle emissioni serra e di conseguenza ad una accentuazione dei problemi legati al clima.

Possiamo provare allora a dare ai nostri lettori, qualche linea guida per realizzare la società “post-fossile” del futuro? Sono già in atto passi concreti in questa direzione?
Il nostro “compito storico”, non può essere che quello di creare un’economia ed una società che sia “leggera” nell’utilizzo delle risorse, lasciandosi alle spalle il fardello legato alla “civiltà del carbone e delle colonie”. Bisogna reinventare il benessere per forgiarne uno nuovo capace di giustizia. Questa strada per il futuro può essere costruita mettendo insieme tre linee strategiche di cambiamento: dallo spreco all’efficienza, dal fossile al solare, dall’eccesso alla sufficienza.
Partiamo dalla prima. E’ chiaro che tutta la nostra economia si basa sul presupposto che la natura è gratuita: il costo dell’utilizzo della biosfera non compare mai nei nostri conti. Un presupposto che si è incrinato con la crisi ecologica che stiamo vivendo. Finora la tecnologia ha concentrato la sua attenzione sul ridurre i lavoratori, ingigantire i numeri, aumentare la velocità, ridurre i tempi, etc… Dovrà dirigersi in una direzione differente, facendo uno sforzo e inventando nuove soluzioni, per ridurre al minimo l’utilizzo di risorse, energia, materie prime, acqua, etc…
Cambieranno così le priorità di tecnologia e organizzazione del lavoro.
Oggi si parla spesso di efficienza e risparmio energetico, ma c’è ancora molto da capire e da lavorare in merito. Bisogna guadare a tutta la catena di produzione ed utilizzo, diciamo per esemplificare “dalla miniera, alla lampadina”: estrazione, lavorazione della materia prima, impianti di combustione, linee di trasmissione, etc… E’ necessario intervenire su tutti i punti della filiera per ottenere guadagni significativi. Le lampadine a basso consumo, di cui molto si parla, sono importanti, ma costituiscono solo l’ultimo anello di una lunga catena.
Abbiamo due facce della medaglia, da un lato una sfida per la creatività umana ed in particolare per quella di ingegneri e scienziati, dall’altra problemi “a misura di casalinga” per cui abbiamo soluzioni già pronte: basta organizzarsi per applicarle. Se per esempio dotassimo di pompe efficienti tutti gli impianti di riscaldamento delle case tedesche, un intervento alla portata di qualsiasi idraulico, potremmo già oggi risparmiare il 10% del fabbisogno energetico della Germania. Per passare dallo spreco all’efficienza abbiamo anche bisogno di nuovi strumenti politici, che permettano di indirizzare ricerca e progresso su questa strada. Un buon esempio è il “top runner approach” inventato dai giapponesi per guidare lo sviluppo delle tecnologie: fatto uno screening dell’efficienza di tutti i prodotti sul mercato di una certa tipologia (per esempio le lavatrici), si individua quello con i consumi più ridotti, indi si impone che in 5 anni tutti i prodotti di quella tipologia debbano raggiungere quel grado di efficienza. In pratica si stabilisce come standard minimo di domani il meglio raggiunto fino ad oggi. Un approccio ingegnoso, infatti la politica ha il compito e deve stabilire degli standard, ma il problema è che spesso lo fa in astratto e senza la competenza sufficiente, rischiando di sbagliare il tiro ed essere o di manica troppo larga o di manica troppo stretta. Con il “top runner approach” questo problema viene meno, perché esiste un caso concreto in cui lo standard imposto è già stato raggiunto. Probabilmente anche in Europa adotteremo a breve qualcosa di simile.
Passiamo alla seconda linea di cambiamento: dal fossile al solare. Innanzitutto è il passaggio chiave per sostituire la base delle risorse attualmente utilizzate dall’economia, che come abbiamo detto oggi si fonda quasi esclusivamente sui combustibili fossili. Con “solare” si intende in senso lato ed esteso un nuovo paradigma energetico che ovviamente include eolico e biomasse: anche i venti e le piante sono legate all’energia del sole. Le ultime guerre, ed in particolare quella dell’Iraq, dovrebbero averci insegnato che questo cambiamento è cruciale anche per la sicurezza globale: finché facciamo affidamento su gas e petrolio ci troviamo in una situazione in cui abbiamo poche fonti localizzate ma consumatori ovunque. Ovvero la distanza tra luoghi di produzione e luoghi di consumo è grande. Le tante nazioni toccate da queste lunghe filiere di approvvigionamento non devono essere troppo “inquiete”, per cui, ed è questa la politica degli ultimi 30 anni non solo degli Stati Uniti, bisogna installare “sicurezza” in queste nazioni da attraversare perché l’economia dipende dalla stabilità delle filiera. Ma un tale atteggiamento crea scompensi, tensioni e conflitti, che sfociano, come abbiamo più volte avuto modo di constatare, in vere e proprie guerre. L’unica soluzione è abolire il sistema delle filiere lunghe e le risorse rinnovabili ci danno una mano non da poco in tale direzione, perché per loro natura non hanno bisogno delle catene lunghe. A differenza del petrolio tutto sommato sole, vento e biomassa si trovano ovunque.
La vicinanza di produttore e consumatore è una delle chiavi per il futuro.
Ed è questo il motivo che mi vede scettico sulla produzione concentrata di energia anche, per esempio, tramite grandi impianti solari nei deserti, pur oggi tecnicamente possibile e magari vantaggiosa. Non basta infatti parlare di energie rinnovabili; bisogna cambiare radicalmente l’idea e l’immaginario che abbiamo del sistema energetico, fatto di fonti e punti concentrati di produzione e grandi e pesanti reti di distribuzione.
Dobbiamo dimenticarci la produzione di massa. La grande novità sociale e organizzativa è che ognuno potrà produrre l’energia che utilizza: un’energia “fai da te” si direbbe in Italia con una terminologia forse un po’ impropria. Oggi infatti, in linea di principio, ogni casa è in grado di produrre tutta l’energia che serve ai suoi inquilini, domani lo stesso accadrà per la macchina, il cellulare, etc…
La rete continuerà a garantire la stabilità generale del sistema nelle situazioni di emergenza o di particolare richiesta o consumo, ridistribuendo opportunamente i “surplus” di produzione.
Una filosofia vincente in tal senso è quella inventata dalla legislazione tedesca con “il conto energia”: uno dei prodotti di maggiore esportazione della Germania di oggi, dal momento che ora è presente in 42 paesi tra cui anche la Cina e, se non sbaglio, l’Italia. [N.d.R. In Italia il “Conto Energia” è arrivato attraverso il recepimento della Direttiva comunitaria per le fonti rinnovabili (Direttiva 2001/77/CE) con il Decreto legislativo 387 del 2003. E’ attivo dal settembre 2005.].
Tale provvedimento si basa su due principi: in primis la rete elettrica ed il suo gestore sono costretti a comprare la corrente da ogni piccolo produttore, in secundis il prezzo al quale quest’energia deve essere comprata è fissato e garantito per periodi medio-lunghi ed è comunque più alto del prezzo di mercato dell’energia prodotta convenzionalmente. Il surplus economico per pagare i piccoli produttori è caricato sotto forma di una piccola tassa a tutti i consumatori convenzionali di energia: un meccanismo efficace di ridistribuzione dei costi per affermare nuovi modi di produzione più sostenibili per tutti. Grazie al conto energia, infatti, le fonti alternative sono diventate un investimento interessante e molti in Germania hanno raccolto questa chance portando la nazione a rivestire attualmente il ruolo di leader mondiale per l’energia eolica. Altro passaggio chiave sarà quello dall’eccesso alla sufficienza.
Non siamo consapevoli che ognuno di noi ha a disposizione 24 ore al giorno circa 300 schiavi energetici. Un maharaja al confronto ha pochi servitori.
Dovremo imparare a condurre una vita con meno schiavi al nostro servizio; in tal senso un depotenziamento di molte cose che utilizziamo sarà necessario e fondamentale. Va capito che è un assurdo energetico volere le fragole d’inverno o girare con un SUV in città. Il mio esempio preferito in merito riguarda proprio le automobili: una società leggera che permetta di vivere ugualmente bene con un 80-90% in meno di risorse fossili avrà bisogno di una flotta automobilistica molto diversa da quella attuale. Saranno necessari mezzi moderatamente motorizzati che non possano superare i 120 km/h e che siano ottimizzati per viaggiare a 30 km/h. In questo modo, non solo l’esigenza dell’auto calerà in modo sostanziale, ma si potranno anche costruire veicoli più leggeri, non dovendo più proteggere i passeggeri da impatti ad alte velocità, e che consumano enormemente meno.
Inoltre è stato più volte spiegato e dimostrato empiricamente come una velocità minore di quella attuale permetta minori perdite di tempo rendendo il flusso del traffico più fluido e continuo. Dovremo fare della sufficienza un principio base del disegno tecnologico del futuro.

Un ultimo flash: quali leve possiamo muovere per mettere in discussione la nostra vita attuale e reinventare il nostro benessere?
Ognuno di noi ha una sua visione del benessere e della qualità della vita, ma tutti concordano su di un punto: la necessità di tempo. Negli ultimi 40 anni, dal “miracolo economico” in poi, siamo stati tutti immersi nello stesso dilemma: siamo diventati più ricchi e abbiamo molte più cose, ma siamo sempre più poveri di tempo.
La condizione è facile da capire: più cose, più impegni, più appuntamenti, più esigenze, più frenesia, ma le ore di una giornata restano sempre 24. Il risultato è un nervosismo diffuso, disagio e mancanza di tempo: tutti fattori che ci rendono meno pronti e disponibili a cogliere le delizie e i piaceri delle cose. Lo stress oggi è addirittura una delle più citate cause di malattia. Senza arrivare a tali estremi, tuttavia, ci accorgiamo tutti di come, per esempio, sia facile comprare un cd e poi metterlo in uno scaffale. Ma che senso ha, se non abbiamo mai il tempo per ascoltarlo? E che senso ha ascoltare la musica solo mentre facciamo altre mille cose: cucinando, facendo il bagno, etc…
Non siamo più in grado di apprezzarla, non abbiamo il tempo di farci l’orecchio. E’ questo ragionamento è valido per molti campi. Per cogliere la qualità, in particolare quella immateriale, e per sviluppare la nostra sensibilità, abbiamo bisogno di tempo. Dobbiamo riconquistare il tempo e uscire dalla situazione in cui ci troviamo, ovvero quella su cui scherzava il poeta austriaco Ödön von Horvát negli anni ‘30: “Io vorrei sempre essere un altro, ma non ho mai il tempo di esserlo”.

Giulio Caresio