Logo Parco Nazionale del Circeo

Parco Nazionale del Circeo



La storia interpretativa


Ingrancisci l'immagine




Ingrancisci l'immagine




Ingrancisci l'immagine




Ingrancisci l'immagine



Ingrancisci l'immagine

E giunse di nuovo il tempo dell’erba fresca a valle e delle piogge e freddo qui in montagna.
Prendemmo le nostre cose, e con le pecore, le capre e gli animali tutti ripercorremmo gli antichi sentieri; là verso i colli e la piana, lungo le vie della memoria di storie mitiche di Ulisse e di suo figlio Ausono, di Enea e della Maga Circe.

Col tempo scendemmo da Villa Santo Stefano, Terelle, Veroli, Campodimele e Vallecorsa. Sette capocoste, sette passi, ripercorrendo l’ancestrale via Volsca, attraverso Forca La Buona, fra Monte Calvo e Monte Latiglia, per proseguire in basso verso Fontana la Savia, sotto Monte Marino, ed ancora ai piedi del Monte delle Fate: Morroni Tavolella, Serra Palombi, Cisterna Mareccia, Orano, il Seggio...
Attraverso i sentieri per scendere nell’altopiano là dove la montagna si addolcisce e i prati rigogliosi ingrassano le greggi. La via era lunga, qualcuno venne da ancora più lontano, dai monti dell’Abruzzo, da oltre ancora, pare.
Animali e uomini, tutti alla ricerca di erba verde, legna, cacciagione, frutti e campi.
E ci trovammo lì, sui contrafforti, affacciati senza fiato ad osservare, vasta e brumosa, la piana sottostante: in fondo una striscia brillante di cielo e mare che con l’azzurro chiudeva una foresta verde cupo; laghi grigiastri, pozze e radure alte macchiavano la vergine distesa, lenti scorrevano i ruscelli…e in mezzo ai rami a volte un battere di ali ed un garrito riecheggiava tra la nebbia, gettando ombre veloci.
E immoto ad ergersi tra la foresta e il mare, come un’isola, un monte, casa di Circe, dove si narra che Ulisse vi approdò, viaggiatore come noi… ma lui su di una nave.
Per chi camminando segue la linfa vitale della terra che si dipana di stagione in stagione e come un fiume scorre tra valli e monti per raggrumarsi in gorghi di radure, fiori e boschi abitati da selvatici animali… fiume che scava pietre e lascia pozze, enormi massi e rave, terra rossa tra le pieghe, laghi ad albergare pesci……….
per chi come noi viveva seguendone il fluire come sangue……………quella piana ci parve la terra promessa. Ma c’era la malaria e ci fermò…… promessa a quel tempo alle zanzare, ai daini ed ai cinghiali dalla pelle dura, alle grandi querce dalle possenti radici immerse nella melma.
Allora ci fermammo a pascolare i colli e più in basso, fin dove la natura permetteva.
Accendemmo fuochi e costruimmo ripari per la notte.
Ed era maggio…. con la calura dal mare, i vapori e le zanzare mefitiche dal piano, tornava il richiamo per le greggi dal verdeggiare dei monti, ed allora invertivamo il corso……… verso le case natie e i pascoli di sempre.
E quando si avvicinava il primo freddo di settembre, dai monti di nuovo si riscendeva a valle, per poi farvi ritorno ancora a maggio, ……..così si ripeteva questo andare e venire di stagione in stagione.
Qualcuno nel tempo di questo atavico fluire scelse di rimanere lungo i luoghi della via. Portammo con noi prima i figli poi anche le mogli, costruimmo capanne di pietre e stramma, ovili, recinzioni.
Abitammo la valle, altri ancora si fermarono, chi a Casemurate in alto, chi nella macchia di Cascano verso il Borgo medievale di Sonnino, chi al Cerreto, a Camposoriano e a Capocroce, e più giù ancora fino al Frasso.
Tra le pietre e i massi enormi, al riparo del sole, scoprimmo terra umida e fertile, dissodammo e seminammo grano, al riparo del vento piantammo frutta, olivi e vite. I grandi massi guardiani della valle, e le pieghe della terra, divennero i luoghi del nostro quotidiano: strane presenze, piazze e vicoli d’erba, pozze e fontane; e su tutto a dominare, l’enorme pietra, la cattedrale: la rava dedicata a San Domenico, protettore dai morsi dei serpenti.
Coltivammo lino da filare per lenzuola, vestiti e fasce per neonati: La linfa della vita ci vestiva, avvolgeva, copriva e proteggeva. Intrecciammo ceste con rami di olivo e canne di palude: la linfa della terra a mani chiuse conteneva.
Crebbero il lavoro, le pecore ed i figli, portammo nella valle le nostre parlate.
i canti, le preghiere i nostri mestieri e i santi.
I Terellani esperti ortolani, giardinieri e granitisti accudivano le messi.
I Vallecorsani, pratici dissodatori, pecorai e boscaioli, aprirono campi tra le rocce.
I Verolani, vaccai e contadini portarono le mucche e il latte.
I Campomelani avvezzi a lavorar la pietra costruirono muretti a secco e terrazze per gli ulivi e gli orti.
Questi eravamo, ed altri ancora, a piedi e zampe verso l’altopiano e ancora più giù verso il mare.
La piana era sempre li ad attenderci e sfidarci…..ad attrarci. Alcuni di noi ripercorrendo tenui antichi sentieri tra fanghi e giunchi, sabbie insidiose e macchia, sfidava la malaria ed a settembre proseguiva il suo cammino e ricalava verso il mare. La nella Selva, dove il suolo era più alto e asciutto, all’ombra della montagna di Circe, aprì radure e costruì capanne di legno, scorze e paglia. Visse di caccia, pesca, legna e carbone e poi di orti, cavalli e bufali allevati. Li nelle lestre con il tempo, ricostruì la vita familiare, partorì figli e li educò, allevò pecore e capre, e con il loro latte ne fece dei formaggi.
Ma la palude non era vinta e in molti a maggio tornavamo là dove la malaria dava tregua ad osservar dall’alto…………ad aspettare.
Si ritornava allora negli abitati a sud della palude sulla costa e nei villaggi arroccati sopra i monti. Ed al paese di Sonnino, si andava per il mercato a far baratto delle merci; a vendere i prodotti della terra e del lavoro di pastori: agnelli, abbacchi, formaggi e lana; ma anche dell’arti manuali di far mestoli, cesti, tessuti in lino e altro… ognuno si ingegnava.
Passò il tempo e chi continuava a muoversi e viaggiare tra monti e piana, sullo scandire della malaria, dell’erba e delle piogge,…. chi si fermava nelle valli a coltivare e costruire case in pietra.
Finchè scesero dal nord genti esperte di canali e di idrovore, chiamati ad avviare la grande bonifica integrale………molti arrivarono per prendervi parte, con il sogno della terra e del lavoro. Ed anche noi discendemmo dalle montagne: boscaioli, dissodatori e carbonai, e lentamente con grandi sacrifici di lavoro e vite, le paludi furono vinte e la piana prosciugata; gli uomini ne presero possesso e in tanti l’abitammo.
Alle capanne in mezzo alla selva presto sostituimmo case e palazzi, strade e piazze, costruimmo poderosi argini, canali e fossi per tenere le acque. Ai pantani sostituimmo i campi coltivati dai trattori.
Ma ancora siamo spinti a muoverci, come se un destino atavico ci segni. Oggi i nostri figli migrano nelle città per noi troppo affollate e rumorose. E qui sulle colline, in un silenzio antico, restano ad osservare la piana brulicante, le pietre, i bimbi e i vecchi, le capre ed i ricordi di storie, di canti, vino e fichi, che sembrano imbrigliati tre le rocce di un fiume silenzioso che lento scorre ancora.